Alcune recenti pronunzie della Suprema Corte di Cassazione consentono di fare il punto sul quantum di specialità che, per effetto dell’art. 19 D. Lgs. n. 165 del 19.08.2016, connota la disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti delle società pubbliche, in specie, con riferimento all’applicazione o meno delle regole desumibili dal D. Lgs. n. 165 del 2001 anche alle progressioni in carriera.
Invero, non erano mancante opinioni dottrinali e pronunzie giurisprudenziali dei giudici di merito che avevano ritenuto che, non diversamente dall’accesso dall’esterno (ex art. 19, commi 2 e 4, D. Lgs. n. 175 del 2016 ed, in precedenza, ex art. 18 D.L. n. 112 del 2008), anche lo sviluppo in carriera dei dipendenti delle società pubbliche fosse sottratto alla disciplina di diritto comune e, soprattutto, a quella dell’art. 2103 cod. civ. in punto di mansionismo e di accesso, anche in via di fatto, alla qualifica superiore.
Orbene, con una sentenza del 20/06/2023 n.17631, sia pure relativamente ad un ente regionale qualificato come ente pubblico economico, la Suprema Corte ha inteso dare continuità ad un proprio precedente del 01/12/2022, n. 35421. Viene difatti riaffermato come il sistema delle fonti, disegnato dal legislatore per le società a partecipazione pubblica, determini che “è al diritto privato che occorre fare riferimento, in difetto di una specifica norma derogatoria dettata dal legislatore statale”. Insomma, al di fuori delle specifiche ipotesi di cui all’art. 19 D. Lgs. n. 175 del 2016, quel rapporto di lavoro resta assoggettato alla disciplina dell’art. 2103 c.c. e non già a quella dell’art. 52 del D. Lgs. n. 165 del 2001, la cui applicazione resta circoscritta ai rapporti di impiego che si instaurano con le amministrazioni pubbliche indicate nell’art. 1 dello stesso decreto.
Sicché, nel caso delle società pubbliche, il concorso pubblico (o la selezione interna) non diviene più un requisito indispensabile all’accesso alla qualifica superiore ben potendo tale qualifica essere acquisita per effetto dello svolgimento di mansioni superiori, perché, con riferimento ai rapporti di lavoro privato, il mutamento delle mansioni e della qualifica non comporta alcuna novazione oggettiva diversamente da quel che accade nel rapporto di lavoro pubblico.
Neppure in senso contrario pare potersi richiamare Cass., sez. lav., 22/02/2023, n. 5466 che, nel confermare la sentenza di appello, che aveva escluso l’applicazione dell’art. 2103 c.c. in ragione dell’asserita soggezione di quel rapporto di lavoro alle regole del T.U. del lavoro pubblico, evidenzia come le critiche del ricorrente si fossero appuntate solo su tale profilo senza avvedersi che esso rappresentava solo una delle due rationes decidendi della reiezione della domanda. In buona sostanza il ricorso è stato ritenuto inammissibile per la semplice e conclusiva ragione che, a prescindere dall’applicabilità della sola disciplina privatistica, non era stato dimostrato, nella specie, lo svolgimento di fatto di mansioni superiori.
In conclusione, come di nuovo rilevato dalla sentenza n. 17631 del 20233, è innegabile che l’art. 2103 c.c., in tutte le formulazioni succedutesi nel tempo, prevedendo la possibilità di assegnazione del lavoratore a mansioni diverse, considera il mutamento delle mansioni originarie come semplice modificazione della prestazione, anche nell’ipotesi in cui ad esso consegua, con l’attribuzione di un’altra qualifica, l’applicazione di una diversa normativa collettiva e ciò vale anche con riferimento al personale delle società pubbliche.
A cura di Avv. Mauro Montini