Una recente pronunzia della Corte di Cassazione (cfr. ordinanza n. 32418 del 22.11.2023) affronta tematiche di non poco interesse anche per il personale pubblico privatizzato che lavora in contesti connotati dallo svolgimento dei servizi di pronta disponibilità. Si pensi soprattutto al personale sanitario (cfr., per l’area della dirigenza sanitaria, l’art. 27 del CCNL del 19.12.2019) ma il tema concerne anche altri comparti, come conferma ad esempio, l’art. 24 del CCNL del 21.05.2018 del Comparto delle Funzioni Locali che consente l’istituzione del servizio di pronta reperibilità“per le aree di pronto intervento” (in precedenza cfr. art. 23 CCNL 14.9.2000 ed art. 11 CCNL 5.10.2001).
Orbene, la giurisprudenza intervenuta sul punto ha più volte affermato che la disciplina che ne regola gli aspetti deve essere vagliata alla luce della sua compatibilità con il diritto dell’Unione (vds. la direttiva 2003/88 e quella n. 89/391) e della funzione di “protezione” che tali disposizioni assumono al fine di tutelare la sicurezza e la salute dei dipendenti. Sicché, ad esempio, si è ritenuto che sussistesse una violazione di tale impianto regolatorio, con il sorgere anche di correlate responsabilità risarcitoria in capo ai singoli enti, nel caso in cui il numero delle pronte reperibilità svolte fosse sistematicamente superiore a quello previsto (almeno come regola tendenziale) dal contratto collettivo di riferimento (cfr, per gli enti locali, Cass., Sez. Lav., Ord., 23 maggio 2022 n. 16582).
E’ stato ancora precisato che, ancorché la reperibilità passiva (in assenza di chiamata, intendo) non costituisca di regola orario di lavoro e si atteggi a obbligazione strumentale ed accessoria, del tutto diversa da quella lavorativa, non impedendo il recupero delle energie psicofisiche (cfr. Cass. sez. lav., 27/10/2021, n.30301;Tribunale Bari sez. lav., 11/01/2022, n.30; Tribunale Chieti sez. lav., 15/09/2022, n.197; Tribunale Siracusa sez. lav., 26/11/2020, n.1155;), nondimeno violi gli obblighi di protezione allorché, per la sua frequenza e durata complessiva, finisca per incidere sul diritto al riposo ed al tempo libero dei singoli lavoratori (Corte di Giustizia, grande sezione 21 marzo 2021, in causa C-344/19, punti da 61 a 65; 21 marzo 2021 in causa C-580/19, punto 60; Corte giustizia UE sez. V, 11/11/2021, in causa C-214/20, punto 47)
Parimenti, al di là della sua qualificazione formale, è stato altresì sancito che un periodo di pronta reperibilità diviene vero e proprio “orario di lavoro”, ai sensi della direttiva 2003/88, persino nel caso in cui manchi un obbligo del dipendente di permanere sul luogo di lavoro tutte le volte che, per i vincoli impressi in concreto, sia comunque fortemente compromessa la facoltà di gestire liberamente il proprio tempo ovvero di dedicarlo ai propri interessi personali. Più precisamente la Corte di Giustizia ha statuito che, quando tale termine è limitato a pochi minuti, tale periodo deve, in linea di principio, essere considerato, nella sua integralità, come “orario di lavoro” seppure sia necessario, come parimenti precisato dalla Corte, valutare anche l’impatto di tale termine di reazione in esito a una valutazione concreta che tenga conto delle eventuali agevolazioni che gli sono accordate durante tale medesimo periodo (sentenza del 9 marzo 2021, in causa C-580/19, punti 47 e 48 e giurisprudenza citata).
E’, quindi, in questo contesto, che si colloca il precedente surrichiamato della Suprema Corte (l’ordinanza n. 32418 del 22.11.2023) che affronta il tema delle cosiddette “notti passive”, ossia dello svolgimento di turni di reperibilità notturni permanendo all’interno della struttura del datore di lavoro. Nella specie si trattava di vigili del fuoco addetti a servizi antincendio che, in occasione dei turni di reperibilità notturna, erano tenuti a riposare all’interno della base militare per essere immediatamente operativi in caso di necessità.
Orbene, la Suprema Corte conferma, innanzitutto, come si tratti a tutti gli effetti di orario di lavoro proprio alla luce della disciplina comunitaria e segnatamente della direttiva 2003/88 e dell’art. 31 della Carta dei diritti fondamentali che, al paragrafo 2, dispone che “ogni lavoratore ha diritto ad una limitazione della durata massima del lavoro, a periodi di riposo giornalieri e settimanali e a ferie retribuite”. Si afferma, difatti, a chiare lettere che “rammentata la multiforme casistica di cui alle sentenze CGUE e di questa Corte (vedi anche Cass. n. 30301/2021), deve considerarsi fermo il dato della ricomprensione nell’orario di lavoro del periodo di guardia presso il datore di lavoro. Come spiegato dalla CGUE (p. 36, sentenza del 9 marzo 2021 in causa C-580/19, cit.), la “Corte ha considerato che, nel corso di un periodo di guardia del genere, il lavoratore, tenuto a permanere sul luogo di lavoro all’immediata disposizione del suo datore di lavoro, deve restare lontano dal suo ambiente familiare e sociale e beneficia di una minore libertà di gestire il tempo in cui non è richiesta la sua attività professionale. Pertanto, l’integralità di siffatto periodo deve essere qualificata come “orario di lavoro”, ai sensi della direttiva 2003/88, a prescindere dalle prestazioni di lavoro realmente effettuate dal lavoratore nel corso di suddetto periodo (v., in tal senso, sentenze del 9 settembre 2003, Jaeger, C-151/02, EU:C:2003:437, punto 65; del 5 ottobre 2004, Pfeiffer e a., da C-397/01 a C-403/01, EU:C:2004:584, punto 93, nonché del 1 dicembre 2005, Dellas e a., C-14/04, EU:C:2005:728, punti 46 e 58)” (così ordinanza citata n. 32418 del 2023).
Nondimeno la Suprema Corte ha statuito che, se l’ordinamento comunitario e la sua normativa si preoccupano di ricondurre tale attività nell’ambito dell’orario di lavoro effettivo, non regolano le modalità di retribuzione di tali periodi di guardia.
Invero la “suddetta direttiva non osta di conseguenza all’applicazione della disciplina di uno Stato membro, di un contratto collettivo di lavoro o di una decisione di un datore di lavoro il quale, ai fini della retribuzione di un servizio di guardia, prenda in considerazione in modo differente i periodi nel corso dei quali sono state realmente effettuate prestazioni di lavoro e quelli durante i quali non è stato realizzato nessun lavoro effettivo, anche quando i periodi in parola devono essere considerati, nella loro integralità, come “orario di lavoro” ai fini dell’applicazione della summenzionata direttiva (sentenza in data odierna, Radiotelevizija Slovenija (Servizio di pronto intervento in regime di reperibilità in un luogo isolato), C-344/19, punto 58 e giurisprudenza ivi citata)” (vedi anche, negli identici termini, CGUE – Grande Sezione – sentenza 15 luglio 2021 in causa C- 742/19, B. K. contro Republika Slovenija (Ministrstvo za obrambo)” (così ancora l’ordinanza n. 32418 del 22.11.2023).
Pertanto, nel caso di specie, è stato ritenuto che esulasse dalla disciplina comunitaria il mancato pagamento di tale porzione dell’orario di lavoro quale lavoro straordinario, bensì tramite la corresponsione di una “mera” indennità di pernottamento secondo l’accordo collettivo applicabile a quei lavoratori.
Si tratta di una soluzione, forse, non del tutto appagante ma che affida alle parti collettive il compito di definire anche in questi casi una sorta di giusta retribuzione e che, per certi versi, potrebbe consentire di regolare una volta per tutte il fenomeno delle cosiddette notti passive, che risulta avere una qualche diffusione specie nella prassi applicative di talune cooperative sociali e strutture socio – assistenziali che hanno la necessità di assicurare una vigilanza ed assistenza costante dei propri pazienti, prevedendo turni di reperibilità notturna che implicano il pernotto all’interno della stessa struttura.
Avv. Mauro Montini