Il tema degli incarichi dirigenziali o delle procedure di affidamento di qualsiasi altra tipologia di incarico di “responsabilità” (ovvero anche riconducibile allo schema delle posizioni organizzative) si intreccia spesso, nelle aule di giustizia e prima nel colloquio dei candidati “non vincitori” con l’avvocato, con quello della sindacabilità o meno del relativo provvedimento finale. Siamo, difatti, innanzi a procedure che – seppure procedimentalizzate (ovvero connotate da un avviso interno e da domande di candidati) – non rivestono carattere concorsuale, non concludendosi con la formazione di una graduatoria di merito. Sicché il potere esercitato, per quanto non del tutto “libero”, rimane connotato da un’indubbia discrezionalità attenuata soltanto in parte dai vincoli (di solito piuttosto elastici) che l’amministrazione si è autovincolata a rispettare nell’avviso interno o nelle norme (ad esempio gli accordi collettivi decentrati o i regolamenti interni) a quello presupposte. Persino il famigerato articolo 97 della Costituzione, caro a schiere di avvocati amministrativisi, con i suoi obblighi di imparzialità e buon andamento finisce per annacquarsi non poco, perdendo, come chiarito ancora dalla Corte di Appello di Firenze la sua natura di vincolo finalistico all’agire della pubblica amministrazione il cui “parametro di
legittimità non è l’interesse pubblico, sibbene la sussistenza di ragionevoli esigenze tecnico – organizzative”.