Credo che la principale “prova di coraggio” che gli operatori del diritto – ed in particolare le strutture di vertice- che prestano il proprio servizio all’interno di una pubblica amministrazione sono chiamati ad affrontare quotidianamente, stia nella capacità di conciliare i “desiderata” della parte politica con i vincoli imposti all’agire pubblico dalle leggi e dai principi generali dell’ordinamento giuridico.
Esercitare il ruolo del dirigente, del responsabile di servizio- sopratutto in un ente locale- significa non solo e non tanto aver la capacità di gestire le competenze, le risorse, le strutture assegnate, ma essere destinatari ed attuatori di istanze, esigenze, volontà rispondenti a logiche di governo della comunità amministrata, ispirate da urgenze e finalità, che non sempre contemplano i limiti normativi.
Le reazioni che “input” politici non perfettamente allineati con le leggi suscitano nelle figure dirigenziali deputate alla messa in atto degli stessi, corrispondono appunto al grado di coraggio che ciascuno riesce a sostenere, in funzione delle diverse interpretazioni del proprio ruolo.
Opporre semplicemente un rifiuto, respingendo al mittente la richiesta irricevibile, significa infatti proporsi come garante solo apparente della legittimità, baluardo burocratico al rispetto formale della legge, a tutela fondamentalmente della propria sfera di responsabilità. Significa disconoscere la funzione decisoria propria della parte politica e determinare una frattura nella circolarità del sistema di governo che può raggiungere i propri obiettivi solo attraverso l’integrazione e il reciproco completamento delle funzioni di indirizzo e delle funzioni gestionali.
Allo stesso modo vanifica le regole del funzionamento del sistema il dirigente che ritiene di essere il vero depositario della capacità di assumere le decisioni giuste per la collettività, in quanto portatore di esperienze e conoscenze di cui gli amministratori non possono che prendere atto e adeguarsi. E’ l’atteggiamento di chi fa prevalere i valori della tecnocrazia, ritenendosi affrancato della partecipazione ad una dialettica e ad un confronto con la parte politica che, per definizione, non può che essere “partitica” e quindi condizionata nelle sue scelte.
In entrambi i casi tuttavia, a mio avviso, si rinuncia invece a svolgere il vero ruolo che, nel disegno legislativo della organizzazione del sistema pubblico, è stato assegnato alle strutture di vertice. E il ruolo è certamente quello di presidio della legalità ma che si esplica e si valorizza proprio intervenendo nella attuazione degli indirizzi, degli obiettivi degli organi eletti.
Non occorre una particolare professionalità per opporre un rifiuto, per operare applicando lo stesso schema qualunque sia il contesto, per agire secondo la logica dell’adempimento.
Occorre invece imparare ed applicare la capacità di ascoltare, anticipare anche, la volontà politica, interpretarne le scelte, suggerire percorsi di sicurezza giuridica, modellare le azioni su canoni normativi, evidenziare i potenziali effetti negativi, confrontarsi per la individuazioni di soluzioni alternative.
Solo così si può dimostrare di saper coniugare il rispetto delle procedure e delle normative con il rispetto delle prerogative politiche, ed essere, alla fine, i veri artefici di una corretta amministrazione della cosa pubblica, imparando in definitiva, secondo un motto coniato in un convegno dei Segretari Comunali, a sapere svolgere le proprie funzioni “ non contro la legge, ma nonostante la legge” con la giusta dose di coraggio che il nostro ruolo ci impone.