Una sentenza della Suprema Corte del 10 luglio 2024 affronta un tema che intercetta una delle modifiche di particolare rilievo introdotte dal D. Lgs. n. 75 del 2017 in merito ai poteri del Giudice del Lavoro in caso di impugnazione si sanzione disciplinari dei dipendenti pubblici.
Invero, con una delle prime pronunzie sulla questione, si afferma a chiare lettere che “fino all’entrata in vigore dell’art. 63, comma 2 bis, D.Lgs. n. 165 del 2001, avvenuta il 22 giugno 2017, ha trovato applicazione, nel pubblico impiego contrattualizzato, il principio, mutuato dal lavoro privato, per il quale il potere di infliggere sanzioni disciplinari e di proporzionare la gravità dell’illecito accertato rientra nel potere di organizzazione dell’impresa quale esercizio della libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost., onde è riservato esclusivamente al titolare di esso; ne consegue che è precluso al giudice, chiamato a decidere circa la legittimità di una sanzione irrogata, esercitarlo anche solo procedendo ad una rideterminazione della sanzione stessa riducendone la misura….Fino al 21 giugno 2017 compreso, quindi, il giudice non aveva il potere di rideterminare la sanzione disciplinare, essendo divenuto applicabile solo dal giorno successivo il citato art. 63, comma 2 bis, in base al quale “Nel caso di annullamento della sanzione disciplinare per difetto di proporzionalità, il giudice può rideterminare la sanzione, in applicazione delle disposizioni normative e contrattuali vigenti, tenendo conto della gravità del comportamento e dello specifico interesse pubblico violato”. Orbene siffatto quadro normativo è stato però inciso dalla nuova disciplina (vigente dal 21 giugno 2017), sicché l’art. 63, comma 2 bis, del D.Lgs. n. 165 del 2001 – il quale prevede che, nel caso di annullamento della sanzione disciplinare per difetto “va interpretato nel senso che il giudice ha il potere/dovere di rimodulare la predetta sanzione, anche in difetto di sollecitazione ad opera dell’amministrazione, in quanto l’assoluta discrezionalità nell’esercizio del potere in questione renderebbe la norma priva di ragionevolezza, oltre che contrastante con la dichiarata necessità di valorizzare e tutelare gli interessi pubblici coinvolti dall’illecito (Cass., Sez. L, n. 10236 del 18 aprile 2023)”. In buona sostanza si ribadisce che “la disciplina applicabile ratione temporis all’esercizio dei poteri del giudice è quella vigente nel momento in cui il potere stesso è esercitato e non assume alcun rilievo la data di commissione dell’illecito”.