Mansioni superiori, dirigenza ed avvocati pubblici

La Corte di Cassazione, con la sentenza del 22.05.2024 n. 14293, affronta alcune tematiche di non poco rilievo con riferimento al tema dello svolgimento di mansioni superiori a carattere dirigenziale nell’ambito del rapporto di lavoro pubblico, tenuto conto del concreto atteggiarsi delle diverse dirigenze che operano all’interno degli enti pubblici ed, in specie, di quelli del SSN.
Innanzitutto, si ribadisce che, se il loro svolgimento non dà mai accesso alla qualifica (art. 52, commi 2-6, D. lgs. n. 165 del 2001) con una delle deroghe più rilevanti rispetto alla disciplina di diritto comune sancita dall’art. 2103 c.c., resta comunque il diritto del lavoratore alla corresponsione delle correlate differenze retributive.
Sicché, acquisito, nella sentenza in commento, che il lavoratore (che apparteneva alla categoria D attuale “Area dei professionisti della salute e dei funzionari”) aveva allegato e provato di aver continuativamente svolto le mansioni di rappresentanza e difesa in giudizio della propria azienda, a nulla rileva l’eventuale insussistenza di un “incarico formale”, dovendosi avere riguardo, in una prospettiva sostanzialistica, al concreto contenuto (qualitativo e quantitativo) delle mansioni prestate.
Infatti “il diritto al compenso per lo svolgimento di fatto di mansioni superiori, da riconoscere nella misura indicata nell’art. 52, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, non è condizionato alla sussistenza dei presupposti di legittimità di assegnazione delle mansioni, posto che una diversa interpretazione sarebbe contraria all’intento del legislatore di assicurare comunque al lavoratore una retribuzione proporzionata alla qualità del lavoro prestato, in ossequio al principio di cui all’art. 36 della Costituzione (Cass. n. 19812/2016; Cass. n. 18808/2013), sicché il diritto va escluso solo qualora l’espletamento sia avvenuto all’insaputa o contro la volontà dell’ente, oppure quando sia il frutto di una fraudolenta collusione tra dipendente e dirigente, o in ipotesi in cui si riscontri una situazione di illiceità per contrasto con norme fondamentali o generali o con principi basilari pubblicistici dell’ordinamento (Cass. n.24266/2016); si è dunque affermato che tali principi operano anche in relazione allo svolgimento di fatto di funzioni dirigenziali (Cass. S.U. n. 3814/2011), a condizione che il dipendente dimostri di averle svolte con le caratteristiche richieste dalla legge, ovvero con l’attribuzione in modo prevalente sotto il profilo qualitativo, quantitativo e temporale, dei compiti propri di tali mansioni (Cass. n. 752/2018 e Cass. n. 18712/2016)” (così Cass., Sez. Lav., 22.05.2024 n. 14293) .
Resta casomai un altro profilo di non poco rilievo a cui il diritto alle differenze retributive è, comunque, subordinato in caso di mansioni superiori a carattere dirigenziale.
Si riafferma, più precisamente, in continuità anche in questo caso con un orientamento oramai consolidato, che, a tale fine, deve sussistere una corrispondente posizione dirigenziale nell’ambito della dotazione organica dell’ente con l’ulteriore precisazione che “sulla base delle previsioni del d.lgs. n. 165/2001, la valutazione sulla rilevanza degli uffici, sulle risorse umane e finanziarie da assegnare agli stessi e in genere sull’organizzazione è rimessa al potere discrezionale della P.A. che non può essere sindacato nel merito in sede giudiziale” (così ancora la menzionata Cass., Sez. Lav., 22.05.2024 n. 14293).
Insomma fra gli oneri di allegazione e prova, di chi rivendica l’asserita prestazione di mansioni superiori a carattere dirigenziale nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico, non è sufficiente soddisfare il cd. criterio “trifasico”, consistente “nell’accertamento in fatto delle attività lavorative concretamente svolte, nell’individuazione delle qualifiche e gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e nel raffronto tra i risultati di tali due indagini” (Tribunale Genova sez. lav., 04/08/2020, n.145), ma occorre anche fornire la dimostrazione che le mansioni e funzioni esercitate corrispondono ad un’effettiva (vacante) posizione dirigenziale nella dotazione di quell’ente (cfr. Corte App. Roma sez. lav., 04/08/2020, n.1384).
Il tutto con l’ulteriore avvertenza che, nella dirigenza pubblica, con una particolare accentuazione del fenomeno in quella dei ruoli del SSN, la posizione dirigenziale non implica necessariamente il conferimento di funzioni gestionali ovvero della responsabilità e titolarità di eventuali strutture ed articolazioni organizzative dell’ente.
Invero, proprio la sentenza qui commentata in perfetta continuità peraltro con Cass., sez. lav., 29/01/2024, n.2695 ed ancora con Cass., Sez. Lav., n. 30811 del 2018, evidenzia che, quanto meno, la dirigenza sanitaria è anche e soprattutto una dirigenza di tipo professionale che diviene gestionale nelle ipotesi (eccezionali e tipiche) in cui al dirigente siano eventualmente conferite le ulteriori e diverse funzioni di direzione di strutture semplici o complesse; funzioni gestionali che non ne sono, quindi, il tratto caratterizzante e necessario.
In altri e più chiari termini “nell’ambito della dirigenza sanitaria del ruolo professionale le aziende sanitarie possono istituire posizioni dirigenziali che, senza attribuzione di responsabilità della struttura, semplice o complessa, comportano l’assegnazione di incarichi di tipo esclusivamente professionale, caratterizzati dall’affidamento di compiti con precisi ambiti di autonomia tecnico-professionale, da esercitare nel rispetto degli indirizzi dati dal dirigente responsabile della struttura, nonché dalla collaborazione con quest’ultimo e dall’assunzione di corresponsabilità quanto alla gestione dell’attività professionale; pertanto, l’assegnazione di fatto del funzionario non dirigente ad una posizione dirigenziale, prevista dall’atto aziendale e dal provvedimento di graduazione delle funzioni, costituisce espletamento di mansioni superiori, rilevante ai fini e per gli effetti previsti dall’art. 52 del d. lgs. n. 165 del 2001, la cui applicazione non è impedita dal mancato espletamento della procedura concorsuale, dall’assenza di un atto formale e dalla mancanza della previa fissazione degli obiettivi, che assume rilievo, eventualmente, per escludere il diritto a percepire anche la retribuzione di risultato” (Cass. n. 30811/2018).
Orbene, com’è intuibile e come conferma la sentenza qui esaminata, la declinazione di siffatti principi è di non poco conto nel caso delle avvocature pubbliche.
L’eventuale rivendicazione dello svolgimento di mansioni superiori dirigenziali implica, in questo caso, necessariamente la dimostrazione dell’esistenza e della vacanza di una corrispondente posizione nella struttura dell’ente ma non anche quella di svolgere funzioni gestionali che, per certi versi, in questa ipotesi finiscono persino per esulare dal ruolo dell’avvocato pubblico anche per come congegnato dall’art. 23 della legge professionale.
E’ invero ius receptum che “affinché i cc.dd. « avvocati pubblici » possano essere iscritti negli elenchi speciali annessi all’albo degli avvocati, presso l’ente pubblico di appartenenza deve esistere un ufficio legale costituente un’unità organica autonoma e coloro i quali sono ad esso addetti devono esercitare con libertà ed autonomia le loro funzioni di competenza, con sostanziale estraneità all’apparato amministrativo, in posizione di indipendenza da tutti i settori previsti in organico e con esclusione di ogni attività di gestione” (T.A.R. Parma, (Emilia-Romagna) sez. I, 04/02/2019, n.27).
Sicché, volendo volgere alle conclusioni se, sullo sfondo del presente commento resta casomai il tema della legittimità dello svolgimento di mansioni identiche da parte di avvocati appartenenti a qualifiche diverse (si pensi al caso piuttosto frequente di uffici legali composti indistintamente da funzionari e da un “dirigente- avvocato coordinatore”), può comunque ritenersi acquisito un dato: la rivendicazioni di mansioni dirigenziali non implica necessariamente l’esercizio di funzioni gestionali, potendosi esaurire anche sul piano professionale. Ciò che rileva è, invece, l’esistenza di una corrispondente posizione nell’ambito della struttura organizzativa di quell’ente ed è, quindi, su tale profilo che sembrano destinate a scontrarsi ed esaurirsi eventuali rivendicazioni di mansioni superiori da parte degli avvocati pubblici.

A cura di Avv. Mauro Montini

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