Le “propine” degli avvocati pubblici sono incluse nel tetto alla retribuzione

La Corte costituzionale, con sentenza del maggio 2022, ha ritenuto non fondata la questione di legittimità della norma di legge che include le “propine” degli avvocati pubblici nel tetto alla retribuzione.
Il Giudice delle Leggi ha, infatti, osservato che la condanna al pagamento delle spese di lite è fatta dal giudice a favore della parte (art. 91, comma 1, c.p.c.), che è quindi titolare del diritto di credito al relativo pagamento nei confronti della controparte soccombente (salvo il caso di distrazione delle spese ex art. 93 c.p.c. in favore del difensore).
Nella specie, la parte titolare del diritto di credito non è l’Avvocatura dello Stato, bensì l’amministrazione pubblica da essa patrocinata, che, se vittoriosa, ha diritto al rimborso delle spese legali nei confronti del soccombente. Una parte di queste (pari al 75%) è poi ripartita tra gli avvocati e i procuratori dello Stato, come componente retributiva aggiuntiva legata agli emolumenti per il “riscosso”.
Tali somme, quindi, sempre secondo il ragionamento della Corte costituzionale, sono indubbiamente a carico delle finanze pubbliche, senza che il vincolo di destinazione su di essi imposto ex lege (ed in particolare dall’art. 21 del R.D. n. 1611 del 1933 e dall’art. 9, comma 4, del D.L. n. 90 del 2014) possa mutarne la natura.
D’altronde, la circostanza stessa che le somme riscosse dall’Avvocatura dello Stato a titolo di competenze e spese legali siano accertate in entrata nel bilancio dello Stato, comporta che esse debbano essere considerate a tutti gli effetti risorse pubbliche e che, una volta erogate, integrino una spesa a carico delle finanze pubbliche.

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