E’ stata appena pubblicata la sentenza della Corte costituzionale che era stata chiamata a fare luce sulle concrete modalità applicative della disciplina dell’art. 2033 c.c. nell’ambito del rapporto di lavoro pubblico e della ripetizione dei cosiddetti indebiti oggettivi, ovverosia di somme erroneamente erogate dal datore di lavoro pubblico e, poi, richieste indietro pur nella pacifica e incontestata buona fede del loro percettore. La costante interpretazione della previsione del codice, che si era consolidata anche a livello giurisprudenziale e che circoscriveva il rilievo della buona fede alla sola decorrenza degli interessi legali, era, difatti, entrata in crisi a seguito di alcuni pronunciamenti della Corte EDU (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) e, da ultimo, della sentenza dell’11 febbraio 2021 (Casarin contro Italia).
Orbene, la Corte costituzionale, nel ritenere infondate le questioni di compatibilità della disciplina suindicata con dell’art. 1 Protocollo addizionale della CEDU, che erano state sollevate nell’ordinanza della Corte di cassazione dello scorso 14 dicembre 2021, opera una lettura non condivisibile della giurisprudenza sovranazionale formatasi nell’ambito della ripetizione di indebiti retributivi e previdenziali erogati da soggetti pubblici,seppure tale giurisprudenza venga diffusamente richiamata al paragrafo 8 della sentenza.
Invero, ribadito come l’istituto dell’indebito oggettivo abbia una sua propria specificità allorché si tratti di “prestazioni previdenziali, pensionistiche e assicurative per le quali il legislatore italiano dispone l’irripetibilità” (almeno tendenzialmente) ovvero ricada all’interno del perimetro e del “presidio” dell’art. 2126 c.c. “ma a condizione che l’indebito retributivo corrisponda a una specifica prestazione, effettivamente eseguita (Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanza 23 novembre 2021, n. 36358)” (così Corte costituzionale n. 8 del 2023), la Corte costituzionale sostanzialmente neutralizza gli approdi della giurisprudenza della Corte Edu con una lettura piuttosto lontana dalla realtà degli artt. 1175 e 1337 c.c.
Difatti, ripercorsa la nozione di buona fede oggettiva ed individuato “nell’art. 1337 cod. civ. la cornice giuridica capace di valorizzare, a livello nazionale, presupposti che, in effetti, corrispondono a quelli individuati dalla Corte EDU per fondare il riconoscimento di un affidamento legittimo circa la spettanza di una prestazione indebita erogata” (così ancora la Corte costituzionale n. 8 del 2023), ogni dubbio di legittimità viene risolto sul piano, innanzitutto, della “categoria della inesigibilità”.
Sicché il datore di lavoro pubblico sarebbe chiamato, in primo luogo, a modulare in concreto (anche tramite specifiche forme di rateizzazione) la richiesta restituzione, “tenendo conto delle condizioni economico-patrimoniali in cui versa l’obbligato, che, ex abrupto, si trova a dover restituire ciò che riteneva di aver legittimamente ricevuto. La pretesa si dimostra dunque inesigibile fintantoché non sia richiesta con modalità che il giudice reputi conformi a buona fede oggettiva (ex multis, Consiglio di Stato, sezione seconda, sentenza 10 dicembre 2020, n. 7889; parere 31 dicembre 2018, n. 3010; adunanza plenaria, sentenza 26 ottobre 1993, n. 11)” (Corte costituzionale n. 8 cit.).
Insomma, parafrasando uno dei più diffusi slogan pubblicitari di una fortunata compagna di vendite al pubblico, verrebbe da dire che uno dei parametri, di conformità dell’art. 2033 c.c. alla giurisprudenza della Corte EDU, è: “puoi restituire l’indebito….in tante, tantissime comode rate…” e (almeno sino alla richiesta del tuo datore di lavoro) “senza interessi”. Non solo ma, per i più fortunati (si fa per dire), magari la restituzione del debito può essere differita nel tempo o addirittura, almeno in parte, abbonata.
Nei termini che seguono si esprime, più precisamente, la sentenza qui commentata:
“In definitiva, la clausola della buona fede oggettiva consente, sul presupposto dell’affidamento ingenerato nell’accipiens, di adeguare, innanzitutto, tramite la rateizzazione, il quomodo dell’adempimento della prestazione restitutoria, tenendo conto delle condizioni economiche e patrimoniali dell’obbligato. Inoltre, in presenza di particolari condizioni personali dell’accipiens e dell’eventuale coinvolgimento di diritti inviolabili, la buona fede oggettiva può condurre, a seconda della gravità delle ipotesi, a ravvisare una inesigibilità temporanea o finanche parziale”.
Orbene, pur essendo questa una primissima lettura, è abbasta agevole rilevare come, nella sostanza, la Corte costituzionale finisce per vanificare quello stesso legittimo affidamento (la conclamata buona fede oggettiva) che pretende di tutelare, collocandolo solo ed esclusivamente sul piano dei concreti effetti restitutori. Neppure essendo chiaro quale siano le “condizioni economiche e patrimoniali dell’obbligato” cui correlare ulteriormente la loro mitigazione, con un’inevitabile indeterminatezza del parametro che, già di per sé, sembrerebbe inidonea a consentire di superare la giurisprudenza sovranazionale della Corte Edu.
E, se possibile, appare ancora più insoddisfacente la circostanza che, ad eliminare ogni “dubbio”, circa l’idoneità dell’apparato rimediale nazionale “a impedire il carattere sproporzionato dell’interferenza nell’affidamento legittimo”, vi sarebbe il presidio della tutela risarcitoria ottenibile in caso di violazione dell’affidamento sia pure “dentro le coordinate della responsabilità precontrattuale, sempre che ricorrano gli ulteriori presupposti applicativi del medesimo illecito” (Corte cost. n. 8 del 2023).
Ancora una volta, senza ripercorrere il diritto vivente formatosi sulla disciplina dell’art. 1337 c.c., riesce a dir poco oscuro (persino scorrendo le ipotesi enucleate dalla stessa Corte costituzionale a titolo esemplificativo), quale sia la tutela risarcitoria concretamente invocabile a fronte di indebiti retributivi correlati per lo più a singole voci stipendiali, non protette dall’art. 2126 c.c. proprio perché (per rimanere al caso specifico da cui è scaturita la sentenza n. 8 del 2023) “la norma non trova applicazione qualora la prestazione si configuri quale mero aumento della retribuzione di posizione di un incarico dirigenziale e, dunque, non si ponga in una relazione sinallagmatica con una specifica prestazione lavorativa aggiuntiva, sì da comportare – dal punto di vista qualitativo, quantitativo e temporale – «il trasmodare dell’incarico originariamente attribuito in una prestazione radicalmente diversa» (Cass. ordinanza n. 36358 del 2021)” (così testualmente la sentenza in commento).
In conclusione, dissentendo ancora dalle statuizioni del Giudice delle leggi, la perdurante incompatibilità della disciplina interna (ovvero dell’art. 2033 c.c.) con la giurisprudenza della Corte EDU, discende proprio dalla mancata previsione di una responsabilità in capo allo Stato o all’ente pubblico, cui si deve la commissione dell’errore nell’erogazione della prestazione.
Tale difetto di responsabilità, difatti, non può essere recuperato sul piano dell’art. 1337 c.c., onerando nella sostanza il percettore dei compensi di una sorta di prova diabolica. E’ il caso di sottolineare, difatti, che gli indebiti oggettivi retributivi, di cui qui si disquisisce, sono per definizione privi di corrispettività (e ne è convita anche la stessa sentenza n. 8 del 2023 chi li sottrae alla regola dell’art. 2126 c.c.), esaurendosi pressoché sempre in singole indennità o voci stipendiali erogate al di fuori o in contrasto con la disciplina di legge ovvero della contrattazione collettiva nazionale (è sufficiente ripercorrere un qualsiasi repertorio giurisprudenziale per accorgersene).
Sicché, se solo si fosse posto mente locale all’eventuale sorgere di ipotesi di responsabilità erariale da individuare in capo a chi aveva determinato (e tollerato) il formarsi ed il perdurare dell’indebito, era casomai su quel piano che avrebbe dovuto collocarsi la sanzione e prevedere, per l’appunto, che, in casi di indebiti oggetti incolpevoli e protrattasi per anni (tali quindi da ingenerare un affidamento incolpevole ex artt. 1175, 1339 e 1375 c.c.), la loro irripetibilità fosse senz’altro sanzionata ma nelle diverse forme e nei diversi modi dell’art. 1 della legge n. 20 del 1994, sottraendo ad un obbligo restitutorio chi quelle somme aveva percepito nell’incolpevole convinzione della loro piena legittimità.
A cura di Avv. Mauro Montini