Tanto si sente parlare di whistleblowing, sia in ambito pubblico che privato.
Con questo termine, mutuato dal linguaggio anglosassone, ci si riferisce all’azione, letteralmente, del “soffiatore di fischietto”, da intendersi in italiano come il segnalante, colui che vede e “fischia”, “segnala”, al pari di un arbitro o di un vigilante, al verificarsi di una irregolarità.
Si tratta di un istituto giuridico dalle molteplici utilità, non solo, quella più evidente, di favorire l’emersione di fatti illeciti sul posto di lavoro, mediante la tutela e il sostegno di chi segnala, ma anche quella di incentivare la libertà di espressione e di responsabilizzare il singolo, chiamato a partecipare attivamente alla vita dell’ente in cui lavora. “La tutela del whistleblower è un diritto fondamentale, riconosciuto a livello internazionale, e rappresenta un’estensione del diritto di libertà di espressione” (Giuseppe Busia, Presidente ANAC).
La disciplina italiana del whistleblowing trova la propria origine nella legge 190/2012, con cui, in attuazione di norme internazionali, si introduce nell’ordinamento nazionale un sistema di prevenzione della c.d. maladministration, la corruzione in senso ampio, che si affianca alla repressione del giudice penale.
Si tratta di un cambiamento culturale importante, in cui l’Amministrazione pubblica è chiamata a programmare e attuare misure che contrastino il malaffare, rispondendo, tramite un complesso di norme sanzionatorie, della mancanza di tale organizzazione e dandone conto ai cittadini, mediante la trasparenza del proprio agire. Il concetto si può sintetizzare con l’espressione “responsabilizzazione” della P.A., ossia, mutuando ancora una volta un ben noto termine anglosassone, “accountability”.
La figura, poco popolare nell’immaginario collettivo, di chi spia e riferisce sugli illeciti, assurge, quindi, in questo contesto, a “vedetta civica”, in un’accezione positiva da proteggere.
Se è questo l’intento del legislatore, ben diversa, però, è la percezione nell’ambito lavorativo: chi denuncia è da punire, allontanare, perché mina le relazioni tra colleghi e ingenera ansia e sospetto. Ne consegue la necessità di tutele effettive che garantiscano la riservatezza dell’identità degli interessati e il contrasto alle ritorsioni, perché la segnalazione non resti una facoltà sulla carta.
L’istituto a tutela dei segnalanti è stato introdotto, come detto, dalla legge 190/2012 nella disciplina sul pubblico impiego, all’art. 54 bis del d.lgs. 165/2001; è stato poi rafforzato nel 2017, fino alla sua abrogazione nel 2023 con la sua completa riscrittura.
La cogenza della norma è stata sottolineata nel tempo dalle sanzioni irrogate dall’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC), a fronte di atti ritorsivi adottati dalle Amministrazioni Pubbliche (si vedano per tutte le delibere n. 72/2024, 380/2024, 426/2024, in attuazione della disciplina ante riforma del 2023).
Si è approdati oggi al d.lgs. 24/2023, che, attuando la direttiva (UE) 2019/1937, ha precisato i margini della disciplina, li ha ampliati e ulteriormente rafforzati.
Non poche sono state le novità: più enti tenuti alle tutele, più soggetti tutelati, individuazione degli illeciti da segnalare, specificazione delle misure di protezione e dei mezzi di segnalazione, tra cui la divulgazione pubblica, introduzione di misure di sostegno ai segnalanti, revisione delle sanzioni applicabili dall’ANAC.
Quest’ultima Autorità, con le linee guida n. 311 del 12 luglio 2023, nel disciplinare la gestione delle segnalazioni esterne di propria competenza, ha fornito indicazioni utili anche alle Amministrazioni tenute alla gestione dei canali interni.
Gli enti che ancora non lo avevano fatto, si sono “attrezzati”, quindi, mediante l’istituzione di canali di segnalazione che assicurino la riservatezza di chi e di cosa si segnala.
La corsa all’adeguamento, salve alcune eccezioni, si è conclusa per tutti – per così dire – il 15 luglio 2023, quando la norma è divenuta efficace, per poi proseguire al fine di disciplinare le specifiche procedure organizzative.
Come spesso accade, però, a fronte di novità rilevanti, chi le deve attuare incontra, poche o molte, difficoltà interpretative e pratiche. Alcune criticità sono state riscontrate anche dai monitoraggi tra le Amministrazioni, a cura dell’ANAC, che hanno evidenziato l’esigenza di migliorare la comunicazione della disciplina al personale, la formazione dei dipendenti e la gestione dei canali di segnalazione.
Sono attese le nuove linee guida dell’Autorità, oggi in consultazione fino al 9 dicembre, che daranno ulteriori indicazioni sulle modalità di gestione delle segnalazioni interne, anche al fine di garantirne l’omogeneità di attuazione tra i soggetti obbligati.
Un aspetto da chiarire, tra gli altri, (anche con l’esperienza sul campo) sarà il difficile confine dell’attività del gestore, chiamato a dare “diligente seguito” alla segnalazione, come vuole il legislatore. Se l’arduo compito è rimesso a un organo interno, è opportuno e necessario che si definisca il limite della sua istruttoria, piuttosto scomoda a dire il vero: lo stesso è tenuto, da un lato a “una prima imparziale delibazione” sulla sussistenza di quanto rappresentato, la cui omissione è sanzionata, ma dall’altro a non “accertare le responsabilità individuali qualunque natura esse abbiano, né svolgere controlli di legittimità o di merito su atti e provvedimenti adottati dall’ente/amministrazione oggetto di segnalazione, a pena di sconfinare nelle competenze dei soggetti a ciò preposti all’interno di ogni ente o amministrazione ovvero della magistratura.” (ANAC, del. 311/2023).
Molto si potrebbe dire ancora su questo istituto e sulla difficoltà di inquadrarlo in un’ottica positiva e non come un incentivo alla delazione o un impiccio per chi è tenuto a gestirlo, certo è che sensibilizzazione e formazione sul tema restano gli strumenti fondamentali per la sua conoscenza e “assimilazione” , perché nelle menti di chi ascolta si arrivi a scorgerne il valore etico, giuridico e la concreta utilità.
A cura di Annalisa Giorgetti, Funzionario pubblico