La Suprema Corte, con ordinanza del 24 giugno 2024, torna sull’ormai annosa questione degli indebiti retributivi dei dipendenti pubblici (anche in questo caso “scoperti” a seguito di visite ispettive e di provvedimenti della magistratura contabile) e conferma la piena ripetibilità dei medesimi (sia pure al netto delle ritenute previdenziali e fiscali) in capo ai percettori, dando piena continuità all’orientamento secondo il quale l’art. 4, comma 1, del D.L. n. 16 del 2014, convertito dalla legge n. 68 del 2014, “non deroga affatto all’art. 2033 c.c., con la conseguenza che la pubblica amministrazione può, nelle ipotesi previste dal comma 1 del medesimo articolo, recuperare direttamente dal dipendente che le abbia percepite le somme indebitamente versate (Cass. nn. 23419-2023 e 17648-2023)”.
Parimenti, a fronte delle difese dei “malcapitati” lavoratori, si riafferma che tale azione di recupero neppure rinviene un limite nella disciplina sancita dall’art. 36 della Costituzione o dall’art. 2126 c.c.. Infatti “l’art. 36 Cost. attiene solo al trattamento fondamentale e agli importi minimi di retribuzione di posizione, non anche alle maggiorazioni ed alla retribuzione di risultato, che in tanto possono essere riconosciute in quanto siano state rispettate le procedure previste dalla contrattazione collettiva (v., ex multis, Cass. n. 11645-2021). Analogamente, la norma contenuta nell’art. 2126 c.c. non trova applicazione qualora si discuta di un aumento della retribuzione di posizione per un incarico dirigenziale e, dunque, non si ponga il tema di una relazione sinallagmatica tra la voce di retribuzione e una specifica prestazione lavorativa aggiuntiva, che comporti – dal punto di vista qualitativo, quantitativo e temporale – “il trasmodare dell’incarico originariamente attribuito in una prestazione radicalmente diversa” (Cass. nn. 36358-2021 e 28966-2023)”.