I. – Si ritiene comunemente che i dipendenti pubblici siano categoria all’interno della quale non dovrebbero essere numerosi i working poor, a parte alcune figure professionali con contratti molto intermittenti; l’osservazione è certamente vera e confortata dai dati e dalle rilevazioni che appunto tendono ad escludere il settore dal novero dei “lavoratori poveri”, almeno nella accezione formale, che comunque stabilisce una linea di distinzione concettuale netta tra individui a rischio di povertà lavorativa e i low-wage workers, ovvero i lavoratori con retribuzioni basse (inferiori al 60% del salario mediano nazionale). Inoltre il pubblico dipendente, se non si trova nella condizione di precario delle pubbliche amministrazioni conosciuta a livello rimediale dalla legislazione dell’ultimo ventennio, non conosce il fenomeno della instabilità della condizione lavorativa, condizione o fattore che può essere determinante, come noto, nel sostanziare la nozione di lavoratore povero.
Se però si guarda alla accezione che nel dibattito pubblico associa la condizione di povertà lavorativa ad un livello basso di retribuzione ed alla stagnazione salariale, allora certamente anche il lavoro nelle pubbliche amministrazioni può divenire territorio di indagine e approfondimento per gli osservatori del fenomeno.
I dati delle retribuzioni contrattuali del settore privato e della pubblica amministrazione, aggiornati al comunicato stampa Istat del 28 aprile 2022, che riporta le informazioni del trimestre gennaio/marzo dimostrano che la crescita retributiva tendenziale nell’ultimo trimestre 2021, ha superato di poco l’1,0% nei settori agricolo e industriale, si è fermata appena sopra lo 0,6% in quello dei servizi privati ed è stata nulla nel pubblico impiego, mentre nel primo trimestre 2022 è rimasta molto contenuta. Data la tempistica dei rinnovi contrattuali, i meccanismi di determinazione degli incrementi attualmente seguiti e considerata la persistenza della spinta inflazionistica, a fine 2022, secondo lo studio e dunque al netto degli eventi bellici e della crisi energetica, si giungerebbe ad una perdita di potere d’acquisto valutabile in quasi cinque punti percentuali che riguarderebbe tutti i settori del lavoro subordinato.
I rinnovi contrattuali del triennio 2019-2021 rappresentano quindi un tassello importante della strategia di rilancio della PA sia per le implicazioni dei contratti collettivi sul piano dell’organizzazione e della gestione delle amministrazioni pubbliche sia come elemento di coesione del Paese, in un contesto appunto dominato dall’emergenza pandemica, bellica ed energetica. Nel complesso, sono interessati circa 2.600.000 addetti cui vanno aggiunti i 600.000 dipendenti pubblici non contrattualizzati (per i quali gli accordi sono negoziati direttamente dal Dipartimento della Funzione pubblica). In questo quadro, dominato dall’emergenza, ma anche dall’esigenza di potenziamento della PA, in funzione di supporto e sostegno agli obiettivi di rilancio del sistema Paese, un passaggio importante è stato sicuramente la conclusione della prima trattativa avviata nel corso dell’anno 2021: quella relativa al comparto delle Funzioni centrali (225.000 addetti), contratto del 9 maggio 2022, tradizionalmente “apripista” rispetto a tutti i rinnovi contrattuali del pubblico impiego.
Guardando i dati riportati nel Documento di Economia e Finanza approvato ad aprile, il 2022 sarà l’anno di picco degli investimenti sul personale della PA. La spesa prevista per redditi da lavoro dipendente delle pubbliche Amministrazioni sarà pari a 188.818 milioni di euro, con un incremento del 7,1% rispetto al 2021. Nel biennio successivo si attende un calo pari all’1%, con una spesa nel 2023 di 186.912 milioni, a cui seguirà un ulteriore calo dello 0,8% nel 2024 e una sostanziale stabilizzazione nel 2025 (+0,2%) che si chiuderà con una spesa pari a 185.664 milioni di euro.
Pesano, inoltre, sulla forte crescita attesa per il 2022 alcuni degli interventi disposti nei decreti Covid e dalla Legge di bilancio 2021, come l’incremento dell’indennità di esclusività dei dirigenti medici, veterinari e sanitari e l’istituzione di una indennità riconosciuta agli infermieri dipendenti delle strutture pubbliche del SSN.
Di fronte a questi dati di spesa, la Corte dei Conti, nella memoria sul DEF 2022, esprime alcune importanti raccomandazioni di merito, rilevando che è impellente:
– rafforzare le componenti variabili della retribuzione, privilegiando istituti contrattuali incentivanti e premiali;
– attuare un graduale superamento delle differenze retributive tutt’ora presenti nei trattamenti accessori tra i vari enti confluiti nei nuovi comparti di contrattazione;
– mettere in atto efficaci politiche di reclutamento di nuovo personale destinato a colmare le consistenti riduzioni determinate dai vincoli sul ricambio generazionale, imposti dalla crisi iniziata nel 2008;
– provvedere a nuove assunzioni in misura mirata agli effettivi fabbisogni, adottando criteri fortemente selettivi che puntino ad individuare nuove figure professionali, maggiormente utili alle mutate esigenze delle singole Amministrazioni.
II. – Questo andamento e questi scenari sono rappresentativi di pre-condizioni legali di incidenza sui trattamenti salariali molto diversi, allo stato, rispetto al settore privato. Come noto, ai sensi dell’art. 48 del D.Lgs. n. 165/2001, è il Ministero dell’economia e delle finanze, che quantifica, in coerenza con i parametri previsti dagli strumenti di programmazione e di bilancio, a determinare l’onere derivante dalla contrattazione collettiva nazionale a carico del bilancio dello Stato con apposita norma da inserire nella legge finanziaria. Allo stesso modo sono determinati gli eventuali oneri aggiuntivi a carico del bilancio per la contrattazione integrativa delle amministrazioni dello Stato e così pure avviene per le risorse relative agli incrementi retributivi per il rinnovo dei contratti collettivi nazionali delle amministrazioni regionali, locali e degli enti del Servizio sanitario nazionale, definite dal Governo, nel rispetto dei vincoli di bilancio, del patto di stabilità e di analoghi strumenti di contenimento della spesa, previa consultazione con le rispettive rappresentanze istituzionali del sistema delle autonomie.
E’ però un dato quello per cui è appunto la legge e, a livello di singola amministrazione, la parte pubblica sulla base dei propri bilanci, a determinare il quantum di risorse disponibili per la contrattazione collettiva e dunque, nel pubblico impiego, rispetto al settore privato dove si dibatte di “salario minimo legale”, per evidenti ragioni, si è già stabilito un livello retributivo obbligatorio che non si limita a dare copertura ai settori che non ne hanno uno adeguato, ma diviene base per miglioramenti salariali generalizzati innestando un meccanismo semiautomatico di adeguamento delle retribuzioni all’inflazione.
Tale meccanismo è da sempre nelle mani del Governo e quindi di un decisore che è più influenzabile e disponibile delle associazioni imprenditoriali. Per quanto nel pubblico impiego, anche nella lettura della Corte costituzionale (cfr. sentenza n. 175/2016) si sia celebrata la insostituibile funzione della contrattazione collettiva proprio nella determinazione e distribuzione dei trattamenti economici in relazione non solo all’art. 36, ma anche all’art. 97 cost., l’assetto retributivo “di fatto” del pubblico impiego ha eroso la funzione di “autorità salariale” dei sindacati e dell’Aran, ed anzi ci si deve chiedere se questa in materia di retribuzione, anziché “funzione” esclusiva dell’autonomia collettiva del pubblico impiego non sia stata in realtà una “finzione”: non è un mistero per nessuno che i grandi momenti di adeguamento dei trattamenti economici alle dinamiche inflattive siano avvenuti non attraverso trattative svolte in Via del Corso tra Aran e sindacati rappresentativi, bensì attraverso grandi accordi politico sindacali extra ordinem, tra Ministri (specie quelli per la Funzione Pubblica) e sindacati confederali (tra i più importanti i patti Fini-Frattini, Nicolais, Patroni Griffi, Brunetta, Madia, Draghi-Brunetta).
Anche il Patto per la coesione sociale Draghi-Brunetta del 10.3.2021 non si è sottratto a questi meccanismi, seppure in una dialettica più rispettosa del ruolo della contrattazione collettiva, fra l’altro con ampi spazi regolativi rilasciati alla contrattazione integrativa.
Vero è che l’ultima stagione contrattuale, come previsto dalla Corte dei Conti, sta producendo differenze significative tra i diversi comparti circa gli incrementi retributivi. Il nuovo accordo sul rinnovo del contratto del comparto sanità 2019-2021 ad esempio, includendo anche le indennità, permette di riconoscere incrementi medi, calcolati su tutto il personale del comparto, di circa 175 euro medi mensili, corrispondenti a una percentuale di rivalutazione del 7,22%” che riguarda 545 mila dipendenti del Servizio sanitario nazionale.
III. – Quindi, in un sistema regolato e assai differenziato rispetto al settore privato, un sistema, per dirla con Giuliano Cazzola, dove si sono già da molto tempo “nazionalizzati i salari”, i grandi temi sul tappeto sono la salvaguardia delle retribuzioni; le ricadute economiche e normative dei nuovi sistemi di inquadramento; la contrattazione collettiva integrativa, particolarmente valorizzata dall’accordo sia con riguardo agli incentivi che rispetto a nuove materie di regolamentazione.
Gli spazi negoziali per un reale impatto sui temi del trattamento economico, al fine di contrastare dinamiche strutturali e congiunturali di erosione del potere di acquisto dei salari pubblici, si rinvengono a mio parere in luoghi diversi dai “minimi retributivi” che arrovellano il dibattito del settore privato, e segnatamente nel salario di produttività/risultato e nel (nuovo) welfare integrativo delle pubbliche amministrazioni.
Su entrambi, il Patto del marzo 2021 delimita e specifica l’ambito di intervento della contrattazione integrativa.
Sul primo tema – il salario di produttività – sembra essere ancora la legge la vera protagonista, in quanto il Patto prevede che i meccanismi di detassazione sulla retribuzione di risultato del settore privato devono essere esportati anche al settore pubblico: si dice debbano essere valorizzati (quindi nel vero senso economico della parola) «i sistemi di premialità diretti al miglioramento dei servizi, estendendo anche ai comparti del pubblico impiego le agevolazioni fiscali previste per i settori privati a tali fini». Ed è chiaro che il valore reale della retribuzione di risultato regolata dalla contrattazione collettiva nazionale e integrativa dipenderà sostanzialmente dalla volontà del legislatore di estendere i benefici fiscali previsti per l’impresa privata ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche: segnatamente si tratta delle note previsioni della L. n. 232/2016 e L. n. 205/2017 (detassazione del premio di produttività nel caso in cui venga corrisposto con strumenti di welfare aziendale; imposta sostitutiva del 10% con massimale di reddito percepito di 80.000 euro e di 3.000 euro di premio di produttività elevabili a 4.000 euro nel caso di introduzione di strumenti di partecipazione sindacale all’organizzazione delle imprese. (cfr. Circolare Agenzia Entrate 29.3.2018, n. 5)
Ma, appunto, bisogna prevederlo e dovrà essere la legge a farlo.
Per quanto riguarda il welfare integrativo nelle pa il percorso è ormai risalente essendosene occupata la contrattazione nazionale già nella tornata 1998/2001.
Il dato fondamentale di sistema è che, diversamente dal settore privato l’amministrazione non può unilateralmente costruire un piano di welfare aziendale, che tenga conto dello sviluppo dell’ente, del tipo di organizzazione del lavoro, delle evoluzioni delle esigenze familiari e professionali del personale, in quanto nel settore pubblico, ratione materiae, il collegamento tra pubblica amministrazione e welfare aziendale è dato unicamente dalla contrattazione collettiva (nazionale e integrativa) con i limiti da questa derivanti.
Forte impulso è qui derivato dalla legge Madia (art. 14 L. n. 124/2015 Promozione della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro nelle amministrazioni pubbliche) per la quale «Le amministrazioni pubbliche, nei limiti delle risorse di bilancio disponibili a legislazione vigente e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, procedono, al fine di conciliare i tempi di vita e di lavoro dei dipendenti, a stipulare convenzioni con asili nido e scuole dell’infanzia e a organizzare, anche attraverso accordi con altre amministrazioni pubbliche, servizi di supporto alla genitorialità, aperti durante i periodi di chiusura scolastica.»
Ma altrettanto forte impulso è derivato dalle previsioni dell’Accordo Madia CGIL-CISL-UIL del 30.11.2016 dove si legge dell’impegno del Governo «a sostenere la graduale introduzione anche nel settore pubblico di forme di welfare contrattuale, con misure che integrano e implementano le prestazioni pubbliche, di fiscalità di vantaggio – ferme le previsioni della legge di bilancio 2016 – del salario legato alla produttività e a sostenere lo sviluppo della previdenza complementare».
La contrattazione nazionale, prima nella tornata 2016-2018 e poi nell’attuale 2019-2021 non ha particolarmente brillato nella definizione delle possibili voci di welfare, che sostanzialmente riproducono l’elenco dell’art. 51, c. 2, lett. f bis, DPR 22 dicembre 1986, n. 987 con riguardo ad opere e servizi utilizzabili dalla generalità dei dipendenti o da categorie di dipendenti, «per specifiche finalità di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e sanitaria o culto» cui è certamente esteso il beneficio di cui all’art. 1, comma 190, lett. a) numero 1, legge n. 208/2015 ( e cioè il valore di tali opere e servizi non concorre ai redditi di lavoro dipendente non solo quando tali spese siano sostenute “volontariamente” dal datore di lavoro, ma anche quando l’offerta di prestazioni a “contenuto sociale” sia oggetto di un piano di welfare aziendale realizzato «in conformità a disposizioni di contratto o di accordo o di regolamento aziendale»).
L’elenco contrattuale (es. Sanità 2022) prevede dunque la concessione di benefici di natura assistenziale e sociale in favore dei propri dipendenti, tra i quali: iniziative di sostegno al reddito della famiglia (sussidi e rimborsi); supporto all’istruzione e promozione del merito dei figli; contributi a favore di attività culturali, ricreative e con finalità sociale; prestiti a favore di dipendenti in difficoltà ad accedere ai canali ordinari del credito bancario o che si trovino nella necessità di affrontare spese non differibili; polizze sanitarie integrative delle prestazioni erogate dal servizio sanitario nazionale anche a copertura di particolari eventi avversi (es. ictus, infarto, ecc.) aggiuntivi a quanto già indicato in materia di coperture assicurative per la responsabilità civile; contribuzione delle spese per l’attivazione di convenzioni per asili nido ove non presenti in azienda.
Ma l’elenco non è tassativo: nella passata tornata contrattuale ad esempio, l’Università di Bologna ha riconosciuto il contributo alle spese odontoiatriche e sanitarie dei componenti del nucleo famigliare, diversi dal dipendente, con indicazione tassativa dei possibili beneficiari; il Comune di Cagliari ha previsto l’attivazione di corsi di lingua (inglese/francese) a favore dei dipendenti impegnati a contatto con il pubblico a qualsiasi livello.
Importante è l’universalità dei trattamenti, nel senso che essi interessano la generalità dei dipendenti a tempo indeterminato, determinato (con spese ammissibili solo se sostenute nel periodo di effettivo servizio), pieno, parziale, in comando (a condizione che non usufruiscano di analoghi contributi da parte dell’amministrazione presso cui sono comandati) ed anche dei dirigenti.
Ciò che interessa è poi l’opportuno ed integrale rinvio che il CCNL fa alla contrattazione collettiva integrativa, sia con riguardo alla scelta degli strumenti, sia con riguardo ai criteri di accesso ai benefici: si tratta cioè di materia interamente demandata alla contrattazione integrativa, escludendo appunto il contratto nazionale qualunque intervento di tipo unilaterale in materia.
IV. – Rispetto alle previsioni dei contratti integrativi successivi alla tornata nazionale 2016-2018 la novità che appare confermata in tutti i comparti, è quella della possibilità (Funzioni centrali) o addirittura dell’obbligo (Sanità) di finanziare il welfare aziendale con le risorse del fondo per la retribuzione di risultato o meglio per i trattamenti accessori.
Chiaro che la soluzione preferibile sarebbe stata quella di svincolare una parte delle risorse utilizzabili dal fondo, ad esempio riportandole tra i costi a bilancio, mantenendo, in ipotesi, un collegamento percentuale tra capienza del fondo e risorse spendibili extra-fondo; ma, in difetto di tale previsione, si determina un cambio di prospettiva nell’azione negoziale a livello di amministrazione, con possibili criticità/conflitti di ordine sindacale tra sigle e nel rapporto con i dipendenti rappresentati (quanta parte del fondo trasferire sul welfare, privando così proporzionalmente di risorse altre parti del trattamento accessorio, dalle progressioni economiche orizzontali ai trattamenti di risultato?).
Insomma, eleggere il welfare integrativo di amministrazione a componente delle politiche retributive significa «rinunciare» ad una quota delle risorse economiche stanziate ai fini dell’erogazione della retribuzione accessoria, comunque denominata. Se così è credo sia indispensabile da parte degli attori sindacali un diverso approccio, di natura programmatica alle misure di welfare, la cui attuazione, al momento, avviene in modo ancora sporadico, senza seguire processi analitici di costruzione dei piani di welfare aziendale per fasi, con individuazione dei portafogli dei servizi offerti in relazione ai bisogni e all’offerta di prestazione a livello territoriale e nazionale.
Occorrono quindi, a mio parere, con approccio nuovo e complesso a questi temi della contrattazione integrativa: a) indagini preliminari sui bisogni del personale, che potrebbero essere molto differenziati in ragione della tipologia di popolazione dipendente, magari sfruttando nell’istruttoria le strutture CUG, che anche e soprattutto di questi temi dovrebbero occuparsi.; b) analisi delle risorse e dei servizi disponibili per dirigere al meglio le scelte della contrattazione integrativa; c) criteri per la negoziazione da parte dell’amministrazione nel reperimento dei servizi, cui il sindacato potrebbe contribuire orientando la formazione dei requisiti di gara (individuazione dei beni e servizi, criteri qualitativi di selezione dei provider anche in termini di affermazione di valori sostenibilità ed inclusione sociale, modalità di erogazione degli strumenti, ecc.); d) monitoraggio sul funzionamento e sul gradimento dei piani di welfare, per calibrare al meglio misure ed erogazioni, in quanto appunto insistenti sul fondo per la contrattazione accessoria.
Come ricordava Massimo D’Antona, gli strumenti privatistici che hanno ispirato le riforme del lavoro pubblico non contribuiranno a migliorare le amministrazioni e le condizioni di impiego dei dipendenti se riposte nella disponibilità di “attori vecchi”, incapaci di cogliere le opportunità, ma anche le responsabilità, di un uso attento delle risorse. Forse questa tornata contrattuale, e le importanti disponibilità finanziarie che la caratterizzano, meritano la migliore prova di attori sindacali “nuovi”, compresi del ruolo e delle difficili sfide che il sistema sindacale del lavoro privato e pubblico è chiamato ad affrontare.
A cura di Sandro Mainardi
Professore ordinario di Diritto del lavoro nell’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna