Il legislatore italiano, al fine di fronteggiare una delle tante e purtroppo sistemiche crisi dei conti pubblici del nostro paese, si “accorge” nel 2012 della prassi della cosiddetta monetizzazione delle ferie al termine del rapporto di lavoro pubblico e, con la consueta apparente perentorietà di non pochi dei divieti delle nostre leggi, afferma a chiare lettere “le ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell’articolo 1, comma 2, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, nonche’ delle autorita’ indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob), sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi. La presente disposizione si applica anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di età. Eventuali disposizioni normative e contrattuali più favorevoli cessano di avere applicazione a decorrere dall’entrata in vigore del presente decreto. La violazione della presente disposizione, oltre a comportare il recupero delle somme indebitamente erogate, è fonte di responsabilità disciplinare ed amministrativa per il dirigente responsabile. Il presente comma non si applica al personale docente e amministrativo, tecnico e ausiliario supplente breve e saltuario o docente con contratto fino al termine delle lezioni o delle attivita’ didattiche, limitatamente alla differenza tra i giorni di ferie spettanti e quelli in cui e’ consentito al personale in questione di fruire delle ferie”.
Ad ormai più di due lustri di distanza dall’entrata in vigore di tale norma, è evidente come la realtà sia tornata a bussare alle porte del nostro legislatore. Infatti, complici anche i blocchi delle assunzioni degli anni che sono seguiti a tale disposizione di legge e le diffuse carenze degli organici pubblici specie all’interno del personale del SSN, la giurisprudenza, dopo una per il vero timida sentenza della Corte costituzionale del 2016, ha provveduto a ridimensionare progressivamente la perentorietà del divieto sino ad arrivare, con la sentenza della Corte giustizia UE sez. I, 18/01/2024, n.218, a tracciare le coordinate reali ed effettive della sua applicazione, precisato che “diritto dell’Ue osta a una normativa nazionale che vieti di versare al lavoratore l’indennità nel caso ove egli ponga fine volontariamente al rapporto di lavoro, precisando che il diritto riconosciuto dall’Ue non può essere compresso e negato in base a considerazioni solo economiche”.
Infatti, fatta eccezione per i casi (davvero residuali) in cui il lavoratore pubblico sia, in ragione della qualifica posseduta, libero di collocarsi in ferie a proprio piacimento, viene riaffermata la regola per cui è il datore di lavoro ad essere “tenuto, in considerazione del carattere imperativo del diritto alle ferie annuali retribuite e al fine di assicurare l’effetto utile dell’articolo 7 della direttiva n. 88/2003/CE, ad assicurarsi concretamente e in piena trasparenza che il lavoratore sia effettivamente in condizione di fruire delle ferie annuali retribuite, invitandolo, se necessario formalmente, a farlo, e nel contempo informandolo, in modo accurato e in tempo utile a garantire che tali ferie siano ancora idonee ad apportare all’interessato il riposo e la distensione cui esse sono volte a contribuire, del fatto che, se egli non ne fruisce, tali ferie andranno perse al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato, o non potranno più essere sostituite da un’indennità finanziaria. L’onere della prova incombe al datore di lavoro”.
Insomma siffatta pronunzia, anche alla luce della cogenza delle sentenze della Corte di Giustizia e della supremazia dell’ordinamento comunitario sul piano del diritto interno, determina non solo una vera e propria riscrittura della disciplina prevista dall’art. 5, comma 8, D.L. n. 95 del 2012 ma conferma anche l’illegittimità delle prassi, invalse in non pochi enti del SSN, di far fruire cumulativamente le ferie al momento della prevista cessazione del rapporto di lavoro magari per raggiungimento della massima età di servizio.
Le ferie, in ragione della loro funzione, devono, difatti, essere fruite negli anni di maturazione ovvero nel rispetto degli eventuali periodi di comporto previsti dalla legge e dalla contrattazione collettiva.
Sicché tutte le volte che il datore di lavoro risulti inadempiente a tale obbligo, ovvero non dimostri e provi che “il lavoratore, deliberatamente e con piena cognizione delle conseguenze che ne sarebbero derivate, si è astenuto dal fruire delle ferie annuali retribuite dopo essere stato posto in condizione di esercitare in modo effettivo il suo diritto alle stesse”, è evidente che non può sottrarsi alle conseguenze risarcitorie derivanti da un simile inadempimento neppure allorché il dipendente decida, per qualsiasi ragione, di dimettersi dal servizio, visto che le dimissioni non si pongono, a quel punto, quale elemento impeditivo alla loro monetizzazione, essendosi già pienamente realizzata la violazione che ne costituisce il solo presupposto liquidatorio.
In conclusione, se l’invito che mi sento di rivolgere ai miei lettori è di fruire delle ferie, resta che, di certo neppure sono tenuti a rimanere in servizio per fruirle, una volta maturati i presupposti per il collocamento in pensione oppure più semplicemente “stanchi di quel lavoro”. Invero, quanto meno con riferimento ai giorni di ferie non goduti ed antecedenti all’anno delle dimissioni, è innegabile il diritto alla loro monetizzazione sia già interamente sorto, gravando oltretutto sul datore di lavoro l’obbligo di provare che tale mancata fruizione sarebbe stata una libera e consapevole scelta del lavoratore.