Anche la società fallita è tenuta a pagare per l’inquinamento prodotto

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 3 del 2021, si è pronunciata sul tema dell’assoggettabilità, a seguito della dichiarazione di fallimento di una società, del curatore fallimentare agli obblighi previsti dall’art. 192 del D. Lgs. n. 152 del 2006.
Tale disposizione normativa vieta l’abbandono ed il deposito incontrollati di rifiuti sul suolo, prevedendo altresì che chiunque violi tale divieto è tenuto a procedere alla rimozione, all’avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi.
Si tratta di capire se, a seguito del fallimento, perdono giuridica rilevanza gli obblighi cui era tenuta la società fallita, con la ricaduta sulla finanza pubblica e con un corrispondente vantaggio patrimoniale dei creditori della società fallita, pur se il curatore fallimentare “gestisce”, in un’ottica di continuità, proprio il patrimonio della società fallita, avendone la disponibilità materiale.
Secondo l’Adunanza deve escludersi che il curatore possa essere qualificato come avente causa del fallito nel trattamento dei rifiuti, dal momento che il fallimento non dà luogo ad alcun fenomeno successorio sul piano giuridico. Deve essere esclusa, pertanto, una responsabilità diretta del curatore fallimentare.
Tuttavia, la presenza dei rifiuti su di un sito industriale e la posizione di detentore degli stessi, acquisita dal curatore dal momento della dichiarazione di fallimento dell’impresa, tramite l’inventario dei beni dell’impresa, comportano la sua legittimazione passiva all’ordine di rimozione.
In definitiva, ad avviso dell’Adunanza Plenaria l’unica soluzione compatibile ai principi di prevenzione e di responsabilità, cardini della materia ambientale, è quella che consente all’Amministrazione di disporre misure appropriate nei confronti dei curatori che gestiscono i beni immobili ove i rifiuti prodotti dall’impresa fallita sono collocati e necessitano di smaltimento.

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