L’art. 2126 del codice civile, quale limite alle conseguenze delle illegittimità del rapporto di lavoro pubblico in caso di violazione dei vincoli finanziari

Alcune recenti sentenze della Suprema Corte (cfr. Cass, Sez. Lav.,, 8 dicembre 2024, n. 31518 ma anche Cass., Sez. Lav., 26 febbraio 2025 n. 4984 ed ancora Cass., Sez. Lav., 28 giugno 2024 n. 17912) consentono di operare una riflessione sulle conseguenze che possono verificarsi in concreto a fronte dello svolgimento di prestazioni lavorative svolte in contrasto con i vincoli di spesa previsti dalla legge o, comunque con le regole della contrattazione collettiva.
Il tema, al di là di un suo indubbio tecnicismo, ha una rilevanza tutt’altro che trascurabile che si coglie appieno, ad esempio nella sentenza n. 4984 del 2025 o in quella precedente n. 17912 del 2024 della Suprema Corte rese entrambe nell’ambito di giudizi in cui si disquisiva di prestazioni di lavoro straordinario svolte in assenza della necessaria copertura finanziaria e del provvedimento di autorizzazione (cfr. nel medesimo senso, Cass., Sez. lav., 23 giugno 2023 n. 18063).
In altre parole tale orientamento giurisprudenziale sembra scaturire dall’esigenze di attenuare, avuto riguardo alle singole fattispecie che possono presentasi in concreto, l’altrimenti eccessiva rigidità di una delle regole cardine del rapporto di lavoro pubblico, secondo la quale, ai sensi dell’art. 2, comma 3, del D.Lgs. n. 165 del 2001, “l’attribuzione dei trattamenti economici è in effetti riservata alla contrattazione collettiva, sicché non è sufficiente a tale scopo un atto deliberativo della P.A., ma occorre, a pena di nullità, la conformità di tale atto alla contrattazione collettiva” (Cass. nn. 11645/2021; 17226/2020). Infatti si è ritenuto che, in talune ipotesi [quale, ad esempio, nel caso di prestazioni di lavoro rese su esplicita richiesta (o comunque nella consapevolezza) del datore di lavoro e per erogare servizi o funzioni istituzionali], le prestazioni rese debbano essere comunque remunerate “secondo il quantum previsto, per tali prestazioni e per quanto riguarda il pubblico impiego privatizzato, dalla contrattazione collettiva” (Cass., Sez. Lav., 28 giugno 2024 n. 17912).
In questo contesto l’art. 2126 c.c., che fa salve le retribuzioni percepite anche in caso di rapporti di lavoro di fatto ovvero affetti da nullità così derogando alla regola generale della nullità negoziali altrimenti improduttive di qualsiasi effetto, diviene una sorta di disposizione di chiusura, espressione degli artt. 35 e 36 della Costituzione (cfr. Corte Costituzionale 27 gennaio 2023, n. 8), alla luce di quale rileggere tutte le (numerosissime) norme che, nel rapporto di lavoro pubblico, assoggettano la remunerazione delle prestazioni rese dal lavoratore pubblico al rigido rispetto delle previsioni di legge, a partire dalla necessaria copertura finanziaria.
E siffatta disposizione sembra destinata ad assumere una rilevante centralità anche rispetto all’annoso (e, purtroppo, non infrequente) tema della ripetizione di pagamenti indebiti nell’ambito del pubblico impiego privatizzato, avuto riguardo alla protezione che essa assicura alla “causa dell’attribuzione, costituita da una attività lavorativa che è stata, di fatto, concretamente prestata, pur se si dimostra giuridicamente non dovuta“, giustificando “sia la pretesa a conseguire il corrispettivo sia, qualora questo sia stato già erogato, l’irripetibilità del medesimo” (cosìc Corte Costituzionale 27 gennaio 2023, n. 8) .
Sicché, come sembra emergere anche da Cass, Sez. Lav.,, 8 dicembre 2024, n. 31518, l’art. 2126 c.c. diviene uno dei parametri su cui non solo fondare la richiesta di remunerazione di prestazioni di fatto ma necessari ad assicurare l’equilibrio dell’ordinamento a fronte di pretese recuperatorie sproporzionate rispetto alle situazioni coinvolte.
Si pensi al caso, che si è verificato nella pratica, di progressioni orizzontali, poi, caducate (magari a distanza di anni dal loro svolgimento e dall’acquisizione del relativo livello economico) per difetto della necessaria copertura finanziaria o addirittura per mancanza del requisito della selettività.
Pare a chi scrive che, anche a convenire che siffatte progressioni risultino illegittime e possano essere travolte, a dispetto dell’affidamento incolpevole dei dipendenti che ne hanno beneficiato, gli effetti retroattivi (e talvolta davvero pregiudizievoli sia sul piano economico che su quello professionale) di tale illegittimità debbano dipanarsi in concreto secondo le regole proprie e tipiche dei rapporti di lavoro di fatto i quali, seppure stipulati in violazione della legge ovvero della contrattazione collettiva, devono essere nondimeno remunerati per effetto dell’art. 2126 c.c. e dei principi sanciti dagli artt. 35 e 36 della Costituzione.
Invero, in siffatta ipotesi, non diversamente da quanto accade nel caso degli “straordinari” svolti “di fatto” (ovvero non autorizzati o comunque privi di copertura finanziaria), l’art. 2126 assurge a regola integrativa delle disposizioni speciali del rapporto di lavoro pubblico sui vincoli di spesa o che comunque ne conformano il suo svolgimento, imponendo, tutte le volte che le prestazioni siano state rese in modo coerente con la volontà del datore di lavoro pubblico, la piena remunerazione. E ciò anche nel caso in cui le prestazioni, come detto, risultino in contrasto con le regole proprie e tipiche di quel rapporto, dovendosi dare la prevalenza alla necessità di assicurare il rispetto del principio della piena corrispettività delle prestazioni secondo l’art. 36 della Costituzione anche in caso di divergenza rispetto agli impegni di spesa.
Ed è interessante che, secondo la giurisprudenza appena richiamata, il tema delle conseguenze della violazione delle regole (ovvero dei vincoli anche finanziari) si sposta casomai “sul piano della responsabilità, verso la Pubblica Amministrazione, dei preposti che non avrebbero in ipotesi dovuto consentire quelle lavorazioni”. Di certo “non può ammettersi che il sistema giuridico…sia alla fine declinato in pregiudizio” del lavoratore che, nella sostanza, si è limitato a svolgere i compiti suoi propri “ed alla cui tutela sono di presidio i principi costituzionali già richiamati” (Cass., Sez. Lav., 28 giugno 2024 n. 17912).
Insomma, detto in altri termini, è, a tutto concedere, sul piano della valutazione dell’eventuale responsabilità disciplinare ovvero di quella amministrativa ovvero ancora delle penalizzazioni in tema di retribuzione di risultato, di chi (dirigente o titolare di una funzione gestionale) ha adottato gli atti poi risultati illegittimi, che debbono collocarsi le eventuali conseguenze sanzionatorie sempre che, ovviamente, nei loro confronti, ricorrano i relativi presupposti anche in termini di rimproverabilità delle condotte causative del danno.
In conclusione l’art. 2126 c.c., alla luce di questa giurisprudenza, sembra destinato ad assumere una particolare centralità nel rapporto di lavoro pubblico, attenuandone e non poco le rigidità e gli effetti maggiormente distorsivi in pregiudizio dei lavoratori pubblici tutte le volte che i compensi rivendicati (ovvero le somme richieste indietro) si pongano in una relazione diretta di corrispettività con il lavoro svolto.

A cura di Avv. Mauro Montini

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