Dopo il “whistleblowing” ci troviamo a disquisire di un altro istituto, anch’esso conosciuto dagli addetti ai lavori con un termine straniero: “pantouflage” (vale a dire mettersi in pantofole, comodi), alla francese o “revolving doors” (porte girevoli), all’inglese.
Siamo di nuovo nel contesto della strategia preventiva della corruzione nella pubblica amministrazione. Si tratta, in questo caso, di una ipotesi di “incompatibilità successiva” particolarmente innovativa, come definita dall’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC), collocata nel più ampio ambito delle ipotesi di conflitto interessi.
Il pantouflage è riferito alla fase che segue la cessazione del rapporto di lavoro e attiene al fenomeno del passaggio dei dipendenti dal settore pubblico a quello privato, percepito dal legislatore quale minaccia all’imparzialità della pubblica amministrazione.
Ebbene sì, quella mobilità naturale nel mondo odierno da un datore di lavoro ad un altro, nella realtà pubblica può tentare il funzionario e pregiudicarne il corretto operato al fine di garantirsi futuri benefici e, al contempo, indurre i privati a esercitare pressioni promettendo assunzioni e incarichi successivi alla cessazione dell’impiego pubblico.
Anche questa volta la disciplina trova la propria origine nella legge 190/2012, che ha introdotto nell’ordinamento del lavoro pubblico, contenuto nel d.lgs. 165/2001, il comma 16-ter dell’articolo 53. La norma prevede che i dipendenti che, negli ultimi tre anni di servizio, abbiamo esercitato poteri autoritativi o negoziali per conto delle pubbliche amministrazioni, non possano svolgere, nei tre anni successivi alla cessazione del rapporto di pubblico impiego, attività lavorativa o professionale presso i soggetti privati destinatari dell’attività della pubblica amministrazione, svolta attraverso i medesimi poteri. I contratti conclusi e gli incarichi conferiti in violazione di tale disposizione sono nulli ed è fatto divieto ai soggetti privati che li hanno conclusi o conferiti di contrattare con le pubbliche amministrazioni per i successivi tre anni, con obbligo di restituzione dei compensi eventualmente percepiti e accertati ad essi riferiti.
La legge 190/2012 ha introdotto una disciplina similare all’articolo 21 del decreto legislativo da essa derivato, n. 39 dell’8 aprile 2013 “Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, a norma dell’articolo 1, commi 49 e 50, della legge 6 novembre 2012, n. 190”, in cui i divieti sopra illustrati si estendono ai titolari degli incarichi apicali in enti pubblici e in enti di diritto privato in controllo pubblico oggetto del medesimo decreto.
E così il divieto di pantouflage, che attiene al post-employment, si affianca alle ipotesi di inconferibilità pre-employment (divieti temporanei di accesso a una carica), e alle incompatibilità in-employment (divieti di cumulo di incarichi) dettate dal d.lgs. 39/2013.
“L’istituto mira ad evitare che determinate posizioni lavorative, subordinate o autonome, possano essere anche solo astrattamente fonti di possibili fenomeni corruttivi (o, più in generale, di traffici di influenze e conflitti di interessi, anche ad effetti differiti), limitando per un tempo ragionevole, secondo la scelta insindacabile del legislatore, l’autonomia negoziale del lavoratore dopo la cessazione del rapporto di lavoro: si tratta di una finalità non illogica, né irragionevole, posta a tutela dell’interesse pubblico generale, che strutturalmente distingue il divieto in questione rispetto al patto di non concorrenza di cui all’art. 2125 Cod. civ.” “In termini più generali, il divieto in questione mira a scongiurare il prodursi degli evidenti effetti antigiuridici che potrebbero derivare da una tale potenziale situazione di conflitto di interessi, in primis quelli di natura corruttiva: non a caso, del resto, l’introduzione del divieto è avvenuta con la legge n. 190 del 2012, espressamente finalizzata ad attuare l’art. 6 della Convenzione della Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dall’Assemblea generale dell’Onu il 31ottobre 2003”. (CdS, sent. n. 7411 del 29 ottobre 2019).
A differenza del whistleblowing, però, l’istituto di cui si tratta non ha visto evoluzioni normative successive alla legge 190/2012, nonostante le istanze di ANAC in tale senso.
Si veda in proposito l’atto di segnalazione al Governo n. 6/2020, in cui l’Autorità auspica l’intervento del legislatore verso una disciplina organica della materia, che chiarisca i dubbi interpretativi, anche oggetto di contenzioso in sede giudiziaria, originati dall’applicazione concreta di una normativa così scarna e alla stesso tempo complessa. “Sembrerebbe pertanto più ragionevole accorpare la disciplina del pantouflage in un unico testo normativo che contenga tutta la regolamentazione della materia, tenendo conto della ratio comune che è possibile riconoscere alla disciplina di pre-employment, in-employment e post-employment: evitare il rischio che interessi privati finiscano per inquinare il perseguimento dell’interesse pubblico nell’azione della pubblica amministrazione.”
Tra le difficoltà interpretative elencate da ANAC, si annoverano quelle relative all’ambito soggettivo (con riferimento sia agli enti di provenienza che agli enti destinatari dell’istituto, sia alle tipologie di dipendenti da sottoporre a divieto), e quelle relative all’ambito oggettivo (con riferimento ai poteri autoritativi e negoziali citati dalla norma e alle attività oggetto del divieto, svolte nell’ente di destinazione), nonché le difficoltà di individuazione del soggetto competente a garantire l’applicazione delle sanzioni previste, sia a livello centrale che di singola amministrazione.
In sostanza, come riscontrato anche per altre discipline introdotte dalla normativa anticorruzione (si pensi, ad esempio alla rotazione così detta “straordinaria” contenuta anch’essa nel d.lgs. 165/2001), in poche righe il legislatore ha concentrato una disciplina composita, portatrice di conseguenze non indifferenti, rimettendo alle amministrazioni pubbliche il compito di programmazione e di gestione di soluzioni volte a garantirne il rispetto.
Di fronte all’assenza di un atto normativo chiarificatore, ANAC, alla luce della giurisprudenza formatasi in materia, è intervenuta mediante provvedimenti interpretativi a supporto degli operatori pubblici, in forza delle competenze consultive conferitele dalla legge 190/2012 (all’art. 1, comma 2, lett e) e del potere regolatorio e di indirizzo attribuitole, nel silenzio del legislatore, da una lettura sistematica della stessa legge 190, riconosciuto anche in sede giuridiziaria (CdS. sent. n. 7411 del 29 ottobre 2019; Corte di Cassazione, ordinanza n. 36593 del 25 novembre 2021).
Si vedano in proposito i Piani Nazionali Anticorruzione (PNA) 2019 e 2022, ma anche i numerosi orientamenti espressi da ANAC nel tempo.
In particolare, in quest’ultimo Piano, ANAC viene in soccorso dell’amministrazione (del responsabili della prevenzione della corruzione, ma anche di tutta l’organizzazione interna all’ente) mediante il suggerimento di misure, da inserire nell’ambito della programmazione della strategia anticorruzione, volte a agevolare la conoscenza della disciplina del pantouflage e l’assunzione dell’impegno di rispettarla, coinvolgendo anche gli operatori economici.
Da ultimo, ad integrazione del PNA 2022 – ma si può aggiungere – anche al fine di ricapitolare quanto detto dall’Autorità in materia, a totale beneficio di chi legge e si può perdere in una così vasta produzione interpretativa, si è giunti alle linee guida n. 1, adottate con delibera n. 493 del 25 settembre 2024. Queste, pur concentrandosi in particolare sui poteri sanzionatori previsti dalla norma, forniscono una sintesi della lettura della disciplina resa da ANAC.
In pari data, in ragione dei poteri dell’Autorità di cui si è detto, quest’ultima ha approvato, con delibera n. 493-bis, il regolamento sull’esercizio della funzione di vigilanza e sanzionatoria in materia di violazione dell’art. 53, comma 16-ter del d.lgs. 165/2001.
Ne esce un quadro complesso in cui, pur nel rispetto dei limiti posti dal legislatore, si tende a dare una interpretazione ampia della norma, sia in termini soggettivi che oggettivi, al fine di contenere le conseguenze pregiudizievoli che il passaggio dal pubblico al privato può comportare.
Resta comunque alle amministrazioni pubbliche l’arduo compito di tradurre in misure concrete le prescrizioni di legge e di effettuare i successivi e non semplici controlli.
Vedremo quali saranno le ulteriori evoluzioni e se il legislatore si muoverà nel senso prospettato da ANAC, mediante una disciplina unitaria e definitivamente (?) chiarificatrice.
A cura di Annalisa Giorgetti, Funzionario pubblico