L’Art. 36, comma 5, D. Lgs. n. 165 del 2001, sotto l’ombrello dell’art. 97 della Costituzione, ha rappresentato, nel corso degli ultimi lustri, un baluardo insuperabile all’immissione in ruolo dei dipendenti pubblici assunti con contratti di lavoro flessibili, poi risultati illegittimi, ed altresì uno dei più evidenti esempi della perdurante specialità del rapporto di lavoro pubblico privatizzato ovvero della discontinuità, di non pochi dei suoi tratti regolatori, rispetto al lavoro disciplinato “dal codice civile e dalle altre leggi sui rapporti di lavoro nell’impresa”.
Esclusa, difatti, la trasformazione a tempo indeterminato, a partire dal 2010 in giurisprudenza si è affermato e consolidato un orientamento che, dopo alcune iniziale oscillazioni, ha mutuato dall’art.32, comma 5, della l. n. 183 del 2010 (oggi trasfuso nell’art.28 D. Lgs. n. 81 del 2015) il riconoscimento della sola tutela indennitaria “nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto” (cfr. da ultimo, Cass. sez. lav., 28/02/2024, n.5244). Il tutto, salvo la prova di un (peraltro difficilissimo e remoto) maggior danno.
Orbene una simile soluzione, seppure abbia avuto il pregio di liberare il precario pubblico da qualsiasi onere probatorio in merito alla sussistenza del pregiudizio trattandosi di un “danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come danno comunitario” (così Cass. sez. lav., 28/02/2024, n.5244), ha continuato a mostrare non poche criticità sia per l’ampia discrezionalità lasciata ai singoli giudici nella sua quantificazione, seppure correlata ai criteri dell’art. 8 della legge n. 604 del 1966, sia e sopratutto per la sua reale portata dissuasiva e sanzionatoria nei confronti dei datori pubblici.
E ciò, come anticipato, anche in ragione dell’estrema difficoltà di dimostrare e provare l’esistenza di eventuali danni ulteriori asseritamente risarcibili (cfr. Cass., sez. lav., 30/06/2022, n.20868) ma ovviamente non coincidenti con la sola mancata stabilizzazione del lavoro pubblico precario (così, anche di recente, cfr. Tribunale Vibo Valentia sez. I, 12/07/2023, n.584 che fa salva “la prova del maggior pregiudizio sofferto, che non può farsi comunque derivare dalla ‘perdita del posto”).
Ed una chiara eco dell’insoddisfazione di una simile soluzione, alla luce della derivazione comunitaria di almeno una parte delle disposizioni che disciplinano le forme di lavoro flessibili (si pensi, per tutte, alla Direttiva 1999/70/CE sui contratti di lavoro a tempo determinato), si è andata progressivamente affermando quanto meno a livello comunitario, tanto da essere stato oggetto anche dell’apertura di una procedura di infrazione da parte della Commissione Ue nell’aprile del 2023.
E’ quindi nel contesto appena descritto che si colloca l’art. 12 del D.L. 16 settembre 2024 n.171 dichiaratamente volto a recare “disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi derivanti da atti dell’Unione europea e da procedure di infrazione e pre-infrazione pendenti nei confronti dello Stato italiano” (così la rubrica del Decreto Legge).
Viene, difatti, modificato l’art. 36, comma 5, D. Lgs. n. 165 del 2001 stabilendo che “«Nella specifica ipotesi di danno conseguente all’abuso nell’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, fatta salva la facoltà per il lavoratore di provare il maggior danno, il giudice stabilisce un’indennità nella misura compresa tra un minimo di quattro e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, avuto riguardo alla gravità della violazione anche in rapporto al numero dei contratti in successione intervenuti tra le parti e alla durata complessiva del rapporti».
Seppure si tratti di una norma che, ancorché già in vigore (dal 17 settembre 2024), potrebbe subire modifiche in sede di conversione in legge, appare senz’altro da accogliere con favore non solo l’emersione a livello normativo della prassi che si è formata sul piano giurisprudenziale ma, unitamente all’indubbio sensibile incremento della indennità risarcitoria riconosciuta (pressoché raddoppiata negli importi rispetto a quella di cui all’art. 32 della legge n. 183 del 2010 o dell’art. 28 D. Lgs. n. 51 del 2015), anche la sua espressa correlazione a criteri che, superando quelli dell’art. 8 della legge n. 604 del 1966, risultano maggiormente ancorati alla rilevanza delle specifiche violazioni che hanno connotato il rapporto di lavoro precario, a partire dalla sua durata o da quella del numero delle proroghe o dei rinnovi intervenuti.
E sia detto da subito, almeno ad una prima lettura, la norma, accentuando il carattere automatico e sanzionatorio dell’indennità, sembra addirittura superare anche un orientamento da tempo invalso nella giurisprudenza della Suprema Corte che escludeva il “danno comunitario” tutte le volte che il precario pubblico, sia pure illegittimamente assunto, fosse stato comunque medio tempore immesso in ruolo dall’ente pubblico colpevole delle violazioni di legge e ciò a condizione che vi fosse una diretta correlazione fra il meccanismo di stabilizzazione e le pregresse fasi di precariato. L’esempio più eclatante è quello del personale scolastico e degli effetti della legge n. 107 del 2015 (cfr., fra le tante, Corte appello Roma sez. lav., 27/07/2022, n.2958 e Cass.,sez. VI, 02/02/2021, n.2338). Orbene, almeno nell’attuale formulazione della disposizione, tale conclusione non parrebbe più possibile, dovendosi ritenere che la portata sanzionatoria non sia elisa dalla successiva immissione in ruolo neppure allorché tale assunzione rinvenga una sua derivazione causale nella fase precaria di quel rapporto di lavoro.
In conclusione, se un commento più compiuto della nuova disciplina dell’art. 36, comma 5, D. Lgs. n. 165 del 2001 sarà possibile soltanto all’indomani della definitiva conversione in legge del D.L. n. 171 del 2024, deve ribadirsi che la novella legislativa è senz’altro da accogliere con favore in quanto si propone dichiaratamente di attenuare, almeno sul piano della tutela risarcitoria, una delle più rilevanti distinzioni con la disciplina del lavoro privato che, da sempre, ha individuato la vera sanzione, dei contratti di lavoro flessibili poi risultati illegittimi in sede di verifica giudiziale, nella loro trasformazione a tempo indeterminato.
Restano, peraltro, sullo sfondo non pochi ulteriori profili di “singolarità” giurisprudenziale della disciplina dei lavoratori pubblici precari, a partire dalla diversa disciplina degli effetti della decorrenza della prescrizione in caso di successione di contratti illegittimi (che in quelli pubblici sarebbe indifferente ad una simile qualificazione cfr. Cass. sez. lav., 11/09/2024, n.24390), che avrebbero meritato e meritano una qualche emersione a livello normativo proprio per superare ulteriori profili di disparità di trattamento con i lavoratori privati.
Si fa, difatti, davvero fatica a comprendere la ragione per cui il cd. metus (ovvero il timore di rimanere “a spasso”) del precario pubblico, che non ha alcuna speranza di essere assunto a tempo indeterminato per via giudiziale, sarebbe “minore” di quello del lavoratore precario privato o comunque meno degno di tutela sul piano retributivo. Invero, specie ove solo si consideri che la violazione della disciplina sui contratti di lavoro flessibile determina il sorgere di ipotesi di danno erariale ed ha altresì riflessi diretti e negativi sul trattamento accessorio dei responsabili della violazione (art. 36, comma 5-quater, D. Lgs. n. 165 del 2001), appare evidente che il dipendente pubblico, che dovesse sollevare il tema della illegittimità della sua forma di assunzione, avrebbe quale conseguenza diretta ed immediata quella di essere messo alla porta alla prima occasione possibile.
Pertanto, anche in questo caso, almeno relativamente alle forme flessibili soggette a discipline di derivazione comunitaria, sembrerebbe possibile concludere che una simile differenziazione viola il divieto di non discriminazione apparendo la conseguenza di una normativa nazionale fondata esclusivamente su “ragioni attinenti al contenimento della spesa pubblica e alle esigenze organizzative del datore di lavoro pubblico” come statuito di recente dalla Corte di Giustizia Ue con riferimento, ad esempio, all’art. 5, comma 8, D. L. n. 95 del 2021 che sanciva un draconiano cd. divieto di monetizzazione delle ferie non godute in capo ai dipendenti pubblici (cfr. Corte giustizia UE sez. I, 18/01/2024, n.218).
Da qui l’auspicio che, in sede di conversione del D.L. n. 171 del 2024, si possa rimettere mano ad una disciplina più complessiva e consapevole degli effetti e delle conseguenze dei contratti flessibili illegittimi.
A cura di Avv. Mauro Montini