La stagione della cd. seconda privatizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni fu avviata, dal nostro legislatore (con il D. Lgs. 31.3.1998 n. 80), alla fine del secolo scorso, nella (forse ingenua) convinzione che, alla fin fine, anche quel rapporto potesse essere ricondotto alle regole del diritto comune e, per certi versi, lasciato all’autoresponsabilità dei suoi attori (collettivi o individuali che fossero).
L’ombra degli artt. 97 e 98 della Costituzione, con la loro tradizionale lettura che implicava una sorta di immanente ed altrimenti inestricabile compenetrazione fra esercizio delle funzioni pubbliche e le regole del rapporto degli impiegati e funzionari che quelle funzioni esercitavano, sembrava essere stata, se non travolta, grandemente ridimensionata dalle sentenze della Corte costituzionale intervenute nelle immediatezza dell’entrata in vigore del D. Lgs. 3.2.1993 n. 29 e chiamate a contenere gli impeti restauratori non solo della giurisprudenza amministrativa ma di parte della stessa burocrazia pubblica timorosa di ogni cambiamento.
Eppure quello slancio riformatore si è spento (o quanto meno grandemente attenuto) soltanto qualche lustro dopo quando, specie con il D. Lgs. 27.10.2009 n. 150 ed i successivi interventi regolatori nati sull’onda delle manovre finanziarie del 2010 – 2011,il legislatore non ha potuto che prendere atto delle distorsioni applicative e della complessità di governo di un modello regolatorio, per giunta, connotato da ambiti di autonomia regionali se non addirittura locali.
Insomma si intende dire che, con una reazione, che nella sostanza sembra essere stata mantenuta anche dal D. Lgs. 25.05.2017 n. 75 ovvero dagli attuali interventi legislativi correlati alle sorti brillanti e progressive del PNRR, si sono progressivamente ampliati gli ambiti di specialità e di disciplina differenziata tra lavoro pubblico e lavoro privato «in quanto il processo di omogeneizzazione incontra il limite della specialità del rapporto e delle esigenze del perseguimento degli interessi generali» (cfr. Corte Cost. sent. n. 275 del 2001; n. 82 del 2003).
Se non è ovviamente questa la sede per trattare un tema che meriterebbe ben altri approfondimenti, nondimeno, è possibile richiamare l’attenzione dei nostri lettori su talune applicazioni giurisprudenziali che sembrano essere più realiste del re.
Invero non può non lasciare davvero perplessi la conclamata affermazione della Suprema Corte secondo la quale il precario pubblico (a differenza di quello privato), ancorché assunto in maniera illegittima, dovrebbe rivendicare le eventuali pretese economiche correlate a quel rapporto di lavoro, nel rispetto del termine di prescrizione quinquennale (ex art. 2948 c.c.) che, per così dire, correrebbe anche in corso di rapporto, non sussistendo alcuna situazione di metus «attesa la mancanza di ogni aspettativa del lavoratore alla stabilità dell’impiego».
Orbene, se appare davvero opinabile persino l’applicazione delle regole decadenziali, proprie dell’impugnazione dei contratti di lavoro a termine, in un contesto in cui non è comunque possibile la conversione a tempo indeterminato stante il baluardo insormontabile del concorso pubblico (ex art. 36 D. Lgs. n. 165 del 2001), del tutto avulsa dalla realtà, dei rapporti di lavoro, risulta sostenere che il dipendente pubblico a termine (o ad apparente collaborazione) non sia, al pari di quello privato, in una situazione di costante soggezione connessa alle sorti del suo contratto che potrebbe benissimo non essere rinnovato alle scadenze pattuite stante, per l’appunto, la sua pacifica aleatorietà.
Sicché, senza indulgere oltre su tematiche che qui si vogliono richiamare solo a titolo esemplificativo, risulta davvero auspicabile che, in un «paese normale», la specialità di disciplina dei dipendenti pubblici non finisca per essere piegata ad una sorta di ragion di Stato, di contenimento dei costi pubblici, assegnando al Giudice ordinario, in funzione di Giudice del Lavoro, il ruolo di «Giudice nell’amministrazione» che è stato, lungamente e non senza qualche fondamento, rimproverato a quello amministrativo.
Si intende dire che, almeno a non voler scomodare una sorta di meccanismo del tipo «agli zoppi grucciate», pare, a chi scrive, che proprio la mancanza di prospettive di stabilità del rapporto accentui e non diminuisca la fragilità del lavoratore precario pubblico che è ben consapevole che l’esito, di qualsiasi rivendicazione stipendiale, potrebbe segnare la fine del suo lavoro, il cui rinnovo è rimesso alla gentile concessione del datore di lavoro pubblico.
A cura di Avv. Mauro Montini