Una tematica da sempre molto dibattuta sia in dottrina che in giurisprudenza è quella concernente il termine di decorrenza della prescrizione dei crediti di lavoro.
Difatti, ferma l’applicazione ai crediti retributivi della prescrizione quinquennale di cui all’art. 2948 n. 4 c.c., l’interrogativo che gli interpreti si sono sempre posti è se tale termine decorra ai sensi dell’art. 2935 c.c. “dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere” e, dunque, anche in corso di rapporto di lavoro, oppure se rimanga sospeso ed inizi a decorrere dal momento della cessazione del rapporto di lavoro.
La prima storica sentenza sul punto risale al 1966, quando la Corte Costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimi gli artt. 2948, n. 4, 2955, n. 2, e 2956, n. 1, c.c. limitatamente alla parte in cui consentono che la prescrizione del diritto alla retribuzione decorra durante il rapporto di lavoro.
Secondo la Corte, infatti, in un rapporto non dotato di quella resistenza, che caratterizza invece il rapporto d’impiego pubblico, la prescrizione del diritto al salario non può decorrere durante il rapporto di lavoro, in quanto la condizione di subalternità socio-economica e giuridica nella quale si trova il lavoratore potrebbe spingere il medesimo a non agire nei confronti del proprio datore di lavoro per il fondato timore di perdere il proprio posto.
Nel 1972, poi, la stessa Corte Costituzionale – alla luce dell’entrata in vigore delle disposizioni a tutela del licenziamento di cui allo Statuto dei Lavoratori – ha circoscritto l’ambito di applicabilità del richiamato principio di non decorrenza della prescrizione dei crediti di lavoro in costanza di rapporto ai soli rapporti di lavoro privato non assistiti dalla tutela reale di cui all’art. 18 della L. n. 300/1970, prevedendo per quelli caratterizzati dal requisito della stabilità l’ordinario decorso in costanza di rapporto.
In applicazione del principio elaborato dalla giurisprudenza costituzionale, negli anni successivi anche la giurisprudenza ordinaria ha affermato chiaramente che la prescrizione dei crediti retributivi del lavoratore decorre in costanza di rapporto di lavoro solo laddove il rapporto stesso sia assistito da garanzia di stabilità reale, tenuto conto della effettiva esistenza di una situazione psicologica di metus per il lavoratore.
Dunque, la giurisprudenza sembrava aver trovato la soluzione per mettere al riparo i lavoratori dal rischio di subire ritorsioni a fronte della rivendicazione di diritti in costanza di rapporto, ma ad avviso di chi scrive così non è, poiché chi ha piena consapevolezza di quelle che sono le dinamiche interne all’azienda sa che coloro che contestano la condotta o le decisioni del datore di lavoro si trovano spesso ad essere vittime di ritorsioni che non si concretizzano necessariamente nel licenziamento, ma che possono incidere in ogni caso in maniera significativa sul benessere psicofisico del dipendente, si pensi a titolo esemplificativo al demansionamento o alla dequalificazione professionale.
Si intende dire che l’efficacia della reintegra quale garanzia di tutela tale da consentire il decorso della prescrizione in costanza di rapporto pare trascurare la circostanza che la stessa non risulta comunque idonea a eliminare completamente il metus che può inibire il dipendente a rivendicare i propri diritti nei confronti del datore di lavoro in costanza di rapporto.
In ogni caso, il richiamato orientamento giurisprudenziale concernente la decorrenza della prescrizione dei crediti di lavoro è rimasto invariato per oltre quarant’anni, ossia fino al momento in cui, prima la c.d. Riforma Fornero e poi il c.d. Jobs act, hanno limitato grandemente la garanzia della cd. stabilità reale del rapporto di lavoro di cui all’originaria versione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Insomma, alla luce delle intervenute modifiche della disciplina dei licenziamenti, dottrina e giurisprudenza sono tornate ad interrogarsi sulla questione concernente il dies a quo della prescrizione dei crediti di lavoro, chiedendosi in particolare se il nuovo articolo 18 per gli assunti prima del 7.03.2015 e il D.lgs. n. 23/2015 per gli assunti dopo tale data continuino ad assicurare la stabilità reale in presenza della quale la giurisprudenza aveva ritenuto configurabile la decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto di lavoro.
Sul punto, si registrano al momento opinioni diverse ed in particolare:
un orientamento, secondo il quale le modifiche introdotte dalla L. n. 92/2012 non avrebbero inciso sul regime prescrizionale, ma soltanto delimitato l’ambito di operatività della reintegra nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo, rimanendo comunque confermate le garanzie di stabilità del rapporto di lavoro pur nella diversa previsione normativa della distinzione delle tutele applicabili (tra le più recenti Tribunale di Napoli 13 aprile 2022, Tribunale di Roma 10 gennaio 2022, Corte d’Appello Milano, 15 novembre 2021 n. 1352, Corte di Appello di Brescia n. 340/2021; Trib. Torino 8 gennaio 2020, n. 1937);
un orientamento, in virtù del quale la prescrizione non decorrerebbe più in costanza di rapporto di lavoro, anche se tutelato dall’art. 18 St. Lav., in quanto la sanzione della reintegrazione è stata a tal punto ridimensionata dalla riforma Fornero (e ancor più dal Jobs act!) da configurarsi ormai come ipotesi del tutto residuale e, dunque, come eccezione rispetto alla tutela indennitaria, con la conseguenza che il prestatore di lavoro – stante l’incertezza circa la tutela reintegratoria o indennitaria applicabile nell’ipotesi di licenziamento illegittimo, accertabile solo ex post – si trova in una condizione di metus che esclude il decorso del termine prescrizionale in costanza di rapporto di lavoro (Tribunale di Bologna 1° febbraio 2022, Corte appello Milano, 25/10/2021, n. 1352; Trib. Alessandria, 9 gennaio 2019, n. 4; Trib. Firenze, 16 gennaio 2018, n. 25).
Quest’ultimo orientamento risulta a mio avviso pienamente condivisibile, non solo in quanto il nuovo assetto normativo in materia di tutela in caso di licenziamento illegittimo ha innegabilmente comportato un netto ridimensionamento delle ipotesi in cui sussiste la garanzia della c.d. stabilità reale, ma anche in considerazione della su descritta circostanza che il cd. metus del lavoratore di fatto non è mai venuto completamente meno neppure durante la vigenza del “vecchio articolo 18” poiché i dipendenti che rivendicano i propri diritti in costanza di rapporto di lavoro – quale che sia la tutela loro riconosciuta in caso di illegittimo recesso – si espongono pur sempre al rischio di subire ritorsioni che, anche se non si concretizzano nella perdita del posto di lavoro, possono risultare parimenti svilenti e causa di malessere per il lavoratore.
In ogni caso, al di là delle opinioni che si possono avere al riguardo, posto che al momento in materia si registrano soltanto pronunce di merito, gli operatori sono in attesa di conoscere l’orientamento dei giudici di legittimità, auspicando altresì un intervento legislativo chiarificatore su una tematica sulla quale il dibattito sembra davvero non accennare a placarsi.
Avv. Letizia Parigi